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Sulla scena mondiale non c’era stata dopo Mandela una figura simbolo dei diritti civili più celebrata di Aung San Suu Kyi. Ma oggi che la Nobel per la Pace guida la sua Birmania con un presidente da lei scelto, incidenti diplomatici e mosse governative sembrano mostrare sotto una nuova luceThe Lady, che si appresta a celebrare i suoi 71 anni in giugno.Uno dei primi campanelli d’allarme era risuonato a Washington quando l’ambasciatore a Rangoon aveva riferito che Suu Kyi non voleva sentire nemmeno pronunciare la parola Rohingya. Ovvero uno dei «popoli più perseguitati della terra», secondo la definizione dell’Onu: minoranza di fede islamica in uno degli Stati buddhisti dell’Unione di Myanmar.Un altro episodio non aveva lasciato indifferente l’opinione pubblica internazionale: registrata dalla Bbc, sbottò in un imbarazzante fuorionda: «Nessuno mi aveva detto che sarei stata intervistata da una musulmana», disse riferendosi alla giornalista Misha Husain. Gaffe che spiegava anche il suo pressoché totale silenzio sulla sorte dei Rohingya. Perfino il Dalai Lama aveva espresso preoccupazione per il modo in cui i buddhisti locali trattavano la minoranza islamica. E un recente durissimo editoriale del New York Times attribuisce a Suu Kyi una responsabilità per come «vengono negati sistematicamente i diritti più elementari, dalla cittadinanza alla libertà di culto» a quella minoranza.