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38 anni fa Franco Basaglia apriva le porte dei manicomi

12.08.2016 11:17

 

Le prime figure lente e dondolanti, le prime persone opache e fragili, i matti senza più lacci ai polsi né fili elettrici in testa uscivano per sempre da qui. Il loro liberatore, il professor Franco Basaglia, sarebbe sopravvissuto appena due anni. Ma le sue idee, la battaglia perché un malato fosse soltanto un malato e non la sua malattia, restano vive e fresche come il primo giorno. Talmente vive che la Slovenia, dove ancora esistono sei manicomi, adesso ci chiede aiuto per diventare come noi e aprire le porte della reclusione sociale e del dolore indicibile.«È un progetto da dieci milioni di euro e l’Italia ne sarà il modello. Per una volta, sono gli altri a copiare noi» Dica l'attuale direttore psichiatrico dell'Istituto di Gorizia. La dottoressa Petra Kokovarev dirige da pochi mesi la Zdravsteni Dom, cioè la Casa della Salute . Ha solo 40 anni. Quando Basaglia liberava i matti, lei andava all’asilo. «Il modello italiano è molto importante, molto interessante per noi. Quando la dottoressa Kokovarev aveva due anni, Norberto Bobbio definì la chiusura dei manicomi «l’unica vera legge di riforma del nostro Paese». Nel ’78, Basaglia l’avevano fatto scappare da Gorizia, già lavorava a Trieste Il recupero del vecchio archivio del manicomio è una miniera di storie, spunti, documenti. Entrando, si sbatte contro un manichino con addosso la camicia di forza. Ci sono le lettere dei malati, un libro della biblioteca dell’ospedale che avrà forse alleviato qualche pena. Sulla parete scorre il documentario di Sergio Zavoli, “I giardini di Abele”, anno 1968, modernissimo esempio di giornalismo. Parla Basaglia, camminando nervosamente avanti e indietro («…la definirei una denuncia civile prima che una proposta psichiatrica »), si vedono scarpe e vestiti ammucchiati come ad Auschwitz, poi un malato che suona lo xilofono, chiavistelli, infermieri che si difendono («Non è vero che li picchiamo, dobbiamo solo proteggere gli altri ricoverati! »), ombre dolenti che barcollano nei viali e si tengono la testa tra le mani, muti. Si vedono i cancelli che cadono e, forse, l’inizio di una vita diversa. Quella di prima è qui nella stanza, appoggiata su una mensola: si chiama Convulsor. È una cuffia per l’elettroshock con morsetti e fili elettrici, grossi e attorcigliati come serpenti. Sui libro dei visitatori, una mano ha scritto mai.

 

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