per l'etica laica, sociale e autodeterminata
L’arte dei pizzaiuoli napoletani, rigorosamente con la U, ha ottenuto il prestigioso riconoscimento dell’Unesco . E’ stata proclamata patrimonio dell’umanità. Una bella vittoria non solo per Napoli, ma per l’Italia. Intanto perché ad essere celebrato come un patrimonio dall’organizzazione delle Nazioni Unite non è un prodotto, sia pur famoso, come la pizza. Ma la cultura, la tradizione, la comunità da cui escono i maestri della margherita.
L’arte dei pizzaiuoli è antichissima. Negli scavi di Pompei e in quelli dell’antica Neapolis, la Napoli del V secolo a. C., sono stati trovati dei forni perfettamente identici a quelli che ancora oggi vengono costruiti dai maestri fornai partenopei con una tecnica tradizionale, ritenuta indispensabile per una cottura a regola d’arte. Un lunga storia di abnegazione, fatica, emigrazione ha fatto di questo pronto soccorso dello stomaco — colazione, pranzo e cena in dose unica per saziare la fame atavica del popolo — il cibo glocal per antonomasia. Che ha letteralmente colonizzato il gusto del nostro tempo. E si è perfettamente integrato nelle diverse culture alimentari, al punto che ciascuno lo ritiene proprio. Insomma un hardware gastronomico, compatibile con i più diversi software. Ciascuno la fa a modo suo.
Pratica comunitaria per un’alimentazione solidale. L’arte della pala e del forno è il risultato di un vero e proprio processo sociale cui pizzaiuolo e consumatore partecipano fifty fifty. Nell’Ottocento a Napoli la parola pizzeria neanche esisteva. Si chiamava bottega del pizzaiuolo, perché più che la merce a contare era l’artigiano. In effetti il disco fumante è solo la materia prima di un rituale alimentare, che ha al suo centro il forno e il banco di lavoro.