per l'etica laica, sociale e autodeterminata

 

 

la mia laura

55 anni  insieme

 

  1. Fidanzati ma lontani                           
  2. Oltre 30 anni di vita a Milano
    1. I momenti migliori                   
    2. I momenti più difficili             
  3. In Toscana                                                

3.1  sulle pendici del Cetona              

3.2 tra Milano e Fonterenza               

3.3 I nostri grandi viaggi                       

4.   A Fonterenza                                         

       4.1 Finalmente stabili           

       4.2 La fine

 

Premessa

Per lungo tempo dopo la drammatica e improvvisa scomparsa di Laura ho custodito gelosamente i ricordi della nostra lunga vita in comune. Non pensavo potessero interessare ad altri, all’infuori di me. Poi, un po’ alla volta, parlandone con mia figlia Viviana e con mia nipote Greta, mi sono reso conto che non conoscevano alcuni aspetti della nostra vita di coppia. Inoltre non erano del tutto consapevoli dello sforzo che Laura aveva dovuto fare per raggiungere il traguardo di responsabile dell’amministrazione della Abacus, e per restare fedele al mio fianco. Perciò, al di là dell’affetto per la mamma e la nonna, non potevano farsi un’idea precisa della sua dimensione etica.  Laura avrebbe avuto più ragioni per lasciarmi, ma non lo fece. Mi sembrava giusto che le persone più care lo sapessero. Durante il percorso della vita si incontrano degli ostacoli, si verificano degli strappi che, sul momento, possono sembrare irreparabili. E’ bene, allora, sforzarsi di guardare al passato, al patrimonio di affetti e di esperienze costruito insieme, prima di prendere una decisione sul futuro del rapporto di coppia.  In un momento in cui potrebbe prevalere la volontà di separarsi è opportuno prendersi una pausa di riflessione. I momenti più belli della mia vita con Laura, li ritrovo negli ultimi anni, quando percorrevamo i sentieri del Monte Cetona oppure quando accoglievamo la visita degli amici più cari, o quando Laura, scovato su Internet l’autore di un libro, me ne parlava mentre pranzavamo e rideva se scopriva che io non lo conoscevo. Tutto ciò, dalle cose più banali a quelle più rilevanti, ha un valore, costituisce un tesoro. Oltre a rendere un dovuto omaggio alla mia Laura, concludo questo scritto, dicendo:” il futuro deve essere costruito, ricordate che è più difficile farlo senza le fondamenta del passato”.

Un grazie particolare a Viviana e Greta per avermi aiutato a ricordare alcuni particolari e all’ amica Marina, che ha avuto la pazienza di rileggere e correggere ogni pagina

 

  1. Fidanzati ma lontani

Accadde Il 18 agosto del 1958.

Da pochi giorni mi trovavo in vacanza a Trieste, a casa dei miei genitori. Il mio amico Paolo Bozzi era arrivato nel pomeriggio da Monfalcone.

Con Dinorah, amica d’infanzia, avevo organizzato una serata danzante al DIM, il circolo sottufficiali di Barcola. L’appuntamento era alle 20.30 ai portici di Chioggia, all’inizio di via Cesare Battisti. Dinorah sarebbe venuta con la sua amica Mara, che già conoscevo. Paolo ed io eravamo lì da un po’, quando vidi arrivare Dinorah con la sorella Laura. Mara era rimasta a casa con il mal di gola. Prendemmo il tram per Barcola. Il salone del DIM era affollato e l’orchestra suonava un lento di grande successo, “Le foglie morte”. Ci eravamo detti il giorno prima con Dinorah che io sarei stato il suo cavaliere, mentre Paolo avrebbe accompagnato Mara.

Appena entrati chiesi a Laura di concedermi il primo ballo. L’avevo incontrata qualche anno prima a casa di Dinorah. La ricordavo ragazzina di 14 anni, magra e impacciata, in pieno sviluppo adolescenziale. La ritrovavo a 18 anni, alta, con un corpo slanciato, da atleta, i capelli raccolti in una lunga treccia appoggiata sulla spalla sinistra. Mi raccontò del suo lavoro, operaia in una fabbrica di articoli di carta e della sua passione, l’atletica leggera. Correva per l’Edera, la società sportiva del Partito Repubblicano ed aveva appena vinto il campionato delle Tre Venezie, nel salto in lungo. Io le raccontai del mio primo anno di vita a Milano. E continuammo a ballare per tutta la serata, dimenticandoci quasi del tutto di Dinorah e Paolo.

Poco prima di mezzanotte venimmo via. Paolo prese l’ultimo treno per Monfalcone, mentre io accompagnai Laura e Dinorah a casa.

Il giorno dopo era domenica. Decidemmo di ritrovarci la mattina, sempre ai portici di Chioggia, per andare al mare. Laura preferiva stare in acqua, mentre Dinorah amava prendere il sole sulla sdraio. Naturalmente io scelsi di stare in acqua. Lo stabilimento Excelsior aveva una vasca interna grande ma poco profonda, con lettini, tavoli e sdraio. Da lì si attraversava un ponticello e si usciva nel mare aperto. Laura ed io scomparimmo con ampie bracciate a stile libero. Facevo fatica a seguirla, lei era un’atleta ed io un impiegato. Lì, in mare aperto, scambiammo il primo bacio. Fu l’inizio di un’unione, durata 55 anni.

La settimana successiva anche Laura era in vacanza. Passammo insieme quasi tutti i pomeriggi e le sere. A metà settimana, alcune sue colleghe organizzarono un ritrovo sulla spiaggia di Sistiana, al calar del sole, per una pesca alle capelonghe o canolicchi, dei molluschi avvolti in una cappa cilindrica che richiama la madreperla. Con la bassa marea, sulla spiaggia che emerge dal mare, si cercano dei buchini, vi si infila un fil di ferro appena ricurvo in cima e si tira su il cannolicchio. Eravamo in 4 coppie e qualcuno propose di fare la gara a chi ne ‘pescava’ di più.

Dopo le prime due pescate, Laura ed io scorgemmo al limite della spiaggia un folto cespuglio, a fianco di un pino marittimo. Era troppo invitante per non nasconderci dietro e abbandonare, senza rimpianti, la gara. Sentimmo ad un certo punto il vociare di un’altra coppia, che ci chiamava, dicendo: siete troppo lontani dalla spiaggia, lì non troverete cannolicchi e poi…… giù una gran risata! Saltammo fuori dal nostro rifugio, con l’imbrunire che copriva il nostro rossore. Naturalmente avevamo perso la gara e pagammo da bere ridendo.

 

 

Marcello Krizman, figlio di Giuseppina Krizman, conosciuta nel rione di San Giacomo come siora Pina, era nato nel 1908. A 14 anni andò a lavorare come garzone di cucina in una trattoria di San Giacomo. Aveva una sorella, maggiore di due anni, Dinorah, che nel 1923, all’età di 17 anni, entrò come apprendista in un laboratorio di sartoria, fondato da due giovani sarte, Lidia Tlustos e Anna Tepsich.

Marcello sognava il mare. Appena raggiunta la maggiore età, nel 1929, si imbarcò come cameriere su una nave passeggeri. Qualche anno dopo però il regime fascista impose a tutti i marittimi triestini e istriani di italianizzare il cognome, pena il ritiro della matricola, il documento obbligatorio per poter lavorare sulle navi. Fu così che Marcello cambiò il suo cognome da Krizman in Crismani. La mamma Pina e la sorella Dinorah mantennero il cognome originario. Nel 1931  Dinorah morì di tubercolosi. Nel 1935 Marcello sposò Natalia Firm, da cui ebbe due figlie Dinorah, nata nel 1936 e Laura, nata nel 1940. 

Nel dicembre 1939 Marcello si imbarcò sulla nave Galilea, lasciando Natalia incinta. La guerra era appena scoppiata e non gli fu possibile ritornare a casa per la nascita di Laura. La nave Galilea era adibita al trasporto delle truppe. Nel dicembre 1940 stava trasportando 1000 alpini verso l’Albania e scomparve nel mar Ionio, probabile bersaglio di una bomba d’aereo o di un siluro di sottomarino. In seguito, non essendo stato ritrovato il relitto, tutti gli occupanti, soldati ed equipaggio, furono dichiarati dispersi.

Natalia Firm, moglie di Marcello, era commessa in un negozio di alimentari a San Giacomo. Non poteva lavorare e tenere con sé le due bambine, l’una di 4 anni e l’altra appena nata. Fu così che affidò Dinorah alla mamma di Marcello, siora Pina, e Laura, al compimento di un anno, alla sorella Giacomina Firm, che non aveva figli.

Il fratello, Egidio, aveva due figli ed era impiegato alla Banca d’Italia. Anche qui era stato richiesto a tutti i dipendenti di italianizzare il cognome per cui il fratello di Natalia Firm si chiamò Egidio Firmiani. Furono molti i triestini, militari, marittimi o impiegati del settore pubblico che dovettero cambiar cognome. Così Massimo Puric, marito di Giacomina, tipografo in un giornale, diventò Massimo Purini, il professor Gianni Fruhlingsdorf (villaggio di primavera) diventò Gianni Frilli, e così via. Molti Vodopivec, cognome sloveno molto diffuso (da voda= acqua e pivec= bere) diventarono Bevilacqua.  La norma valeva per tutti, anche per i greci, cosicchè i Moustakis divennero Mustacchi. Alla fine della guerra soltanto alcuni affrontarono la lunga trafila burocratica per riavere il cognome originario. Molte famiglie rimasero con due cognomi. Non era solo una questione di principi o di sentimenti, ne risultarono compromessi anche degli assi ereditari.

Siora Pina, nonna di Laura, era un personaggio a San Giacomo. Aveva ereditato una discreta somma di denaro dal marito, morto subito dopo la fine della prima guerra mondiale. Intraprese così l’attività di usuraia. Prestava denaro alle famiglie bisognose, con restituzione della somma in 10 rate mensili più un’undicesima rata a titolo di interessi e di eventuali more intervenute nel corso dei primi 10 mesi.

Anche mio padre e mia madre, nei primi anni del dopoguerra, quando mio fratello ed io frequentavamo le scuole secondarie, si rivolsero più volte a Siora Pina, quasi sempre a settembre, quando iniziava l’anno scolastico. Era necessaria una somma di 10.000 lire, per l’acquisto di libri, quaderni e altro materiale scolastico. Le rate da 1.000 lire mensili partivano da fine ottobre fino a fine agosto dell’anno successivo, giusto in tempo per accendere un nuovo prestito.

Siora Pina, dopo la morte del marito, conviveva nel suo appartamento di via della Guardia con Marco Vidulic, capo della pattuglia dei palombari al porto di Trieste. Dinorah è cresciuta con loro.

Laura, nata dunque Crismani, andò dagli zii a Rozzol, nella periferia collinare di Trieste, dove la maggior parte della popolazione residente parlava lo sloveno.

La casa era una classica abitazione bifamiliare, con due appartamenti che si specchiavano, a destra e a sinistra della scala centrale. Entrambi avevano al pianoterra una piccola cucina e la sala, al primo piano una grande stanza da letto e al secondo piano un’altra stanza mansardata. Sul primo pianerottolo era stato costruito un gabinetto, utilizzato da entrambe le famiglie. A destra abitavano Massimo Purini e Giacomina con Laura e a sinistra una sorella di Massimo, Valeria Puric. Davanti alla casa c’era un campo, coltivato a vite, per metà da ciascuna delle due famiglie.

Durante la guerra Massimo venne trasferito nella tipografia di Rijeka (Fiume), dato che il quotidiano Delo aveva chiuso la redazione di Trieste. Laura trascorse così tre anni dell’infanzia a Rijeka. Ritornarono a Trieste nel 1945.

Nel 1947 Dinorah e Laura ottennero lo status di orfane di guerra. Fu proposto a Natalia di inviare Laura in un collegio retto dalle suore a Venezia, nell’isola della Giudecca, dove venivano accolte anche alcune orfane di guerra oltre alle figlie paganti della nobiltà e borghesia veneziane.  Spiegarono a Natalia che Laura avrebbe potuto continuare gli studi, del tutto spesata. Fu così che Laura, all’età di 8 anni, partì per Venezia.

Massimo e Giacomina ne furono molto rattristati e, forse, non condivisero del tutto la decisione presa dalla mamma Natalia.

Il collegio si rivelò un’esperienza amara per Laura. Il trattamento riservato alle orfane di guerra non era paragonabile a quello delle bambine paganti. Innanzitutto dovevano prestare diversi servizi, dalla pulizia delle camerate a quella delle cucine. Inoltre sottostavano a pesanti punizioni in caso di mancanze. Laura ricordava sempre le ore trascorse in ginocchio sul primo scalino, cosparso di sale, di una scala in pietra che portava al primo piano. Che aveva fatto di così grave?  Aveva fatto la pipì a letto. Successe più di una volta e dalla seconda volta in poi le furono messe in testa le mutande bagnate.

Alla fine dell’anno scolastico alcune suore, con le alunne orfane di guerra, si traferirono durante i mesi estivi nel comune di Fucecchio, in provincia di Pistoia, dove una contessa metteva a disposizione del collegio una villa con il parco.

Fu la prima ed unica vacanza di Laura, in mezzo alla campagna toscana, con i contadini che tiravano sassi alle bambine, a difesa dei loro cocomeri. All’inizio dell’anno scolastico successivo Giacomina prese il treno per andare a farle visita. Laura le corse incontro sorridente. Con lei c’era una suora. Appena la suora le lasciò sole, Laura supplicò Giacomina di riportarla a casa.

La settimana dopo venne a Venezia Massimo con una lettera della mamma, che chiedeva di consegnare Laura allo zio.

Laura aveva poco più di 9 anni, aveva fatto la prima comunione, ma non volle più andare in chiesa. Trascorse a Rozzol l’infanzia e l’adolescenza. Terminata la scuola elementare fu iscritta alla scuola commerciale, che stava dall’altra parte della città. Per andarci, ogni giorno, zia Giacomina le dava una monetina per il tram, ma Laura andava e tornava a piedi, comprandosi con la monetina le caramelle d’inverno e il cono di gelato in primavera.

Grazie a quei 3 km percorsi a passo veloce, all’andata e al ritorno, preparava inconsapevolmente un futuro di speranza dell’atletica leggera italiana.

 A 14 anni, senza aver conseguito la licenza media della scuola commerciale, chiese agli zii di andare a lavorare. L’insegnante di ginnastica, però, prima che lasciasse la scuola, l’accompagnò alla sede dell’Edera, la società sportiva del Partito Repubblicano. Fecero un provino e la reclutarono nella squadra giovanile di atletica leggera. Lavorava di giorno e si allenava dalle 18 in poi e nel fine settimana. A 15 anni era già in prima squadra. Vinse la sua prima corsa campestre sul Carso, nell’inverno del 1955.

Soffiava la bora e le atlete tenevano tutte un giornale sotto la maglia per ripararsi dal freddo. Ebbe in premio una tuta completa, giacca e pantaloni.

Negli anni che seguirono, dal 1956 al 1958, gareggiò in tutta Italia con i colori dell’Edera. La sua specialità era il salto in lungo, dove riuscì presto a superare i 5 metri.  Carnielutti, ex ostacolista della nazionale azzurra negli anni ’30 e allenatore delle atlete che frequentavano la pista dello stadio di Valmaura la notò e le propose di provare gli ostacoli. Longilinea, con gran forza nelle gambe, la gara degli 80 ostacoli la conquistò subito. Sia nel salto in lungo che sugli ostacoli, con l’Edera nel cuor, batteva le rivali della più nota e attrezzata società Ginnastica triestina. L’Edera aveva poche atlete tesserate e, soprattutto in trasferta, tutte erano impegnate in più di una specialità.

 In breve Laura diventò un vero e proprio jolly. Incominciò a gareggiare anche nei 100 metri e nella staffetta 4x100.  Gareggiò e vinse sulle piste di tutta Italia, da Milano a Palermo, da Napoli a Firenze e Torino.  Nella primavera del 1958 fu campionessa delle Tre Venezie di Pentathlon e fu convocata nel ritiro di Chiavari della nazionale azzurra, il top per ogni giovane atleta.

Ma quel 18 di agosto arrivai io ed entrai con prepotenza nella sua vita. Saltò gli allenamenti durante l’intera settimana. E successivamente, quando arrivavo da Milano al venerdì sera tardi, saltava gli allenamenti e le gare del fine settimana. Le chiesi di partecipare dicendole che sarei stato a vederla, ma non cercai di convincerla. E lei rifiutò di continuare, nonostante le insistenze dell’allenatore e della Società, che perdevano una vera promessa dell’atletica leggera.

Più tardi negli anni, ho sentito questa mia responsabilità. Laura era nata per lo sport. Quell’insegnante di educazione fisica aveva visto giusto, la ragazzina che cresceva quasi 1 cm al mese a 14 anni, magra e dinoccolata, aveva la stoffa della campionessa. A quell’età (io ne avevo 21 e Laura 18) progettavamo già il nostro futuro a Milano e non sapevamo fare progetti dilazionati nel tempo.  Sarebbero stati sufficienti due anni perché si affermasse in campo nazionale.

Bisogna però tener conto del fatto che, sessant’anni fa, non esisteva il professionismo in atletica leggera (o il dilettantismo camuffato). Gli atleti correvano come volontari e i premi, modesti, andavano alla Società per spesare le trasferte. E Laura aveva bisogno di un salario.

A metà settembre, quando ritornai per la prima volta a Trieste dopo la vacanza d’agosto, Laura mi chiese di andare da lei a Rozzol. Massimo e Giacomina volevano conoscermi. L’occasione era data dalla vendemmia nella vigna davanti alla casa. Salii a Rozzol al mattino presto della domenica con il filobus 11. Alle 9 cominciammo a vendemmiare, alle 10.30 facemmo colazione con una bella frittata e indugiammo parecchio fra i filari. Io tenevo il cestino di vimini e Laura staccava i grappoli d’uva, scartando gli acini avariati. Per ogni grappolo che cadeva in terra ci chinavamo e ci scappava un bacetto.

Erano salite per la vendemmia alcune colleghe di Laura, due delle quali già conoscevo dalla serata della pesca ai cannolicchi.  Massimo era sofferente, pallido e molto magro. Mi accolse con grande cordialità, come se fossi già un membro della famiglia.

 Seppi dopo che soffriva da un paio d’anni di un tumore allo stomaco che gli toglieva l’appetito e le energie. Aveva insistito per alzarsi dal letto e partecipare alla vendemmia. Desiderava conoscere il ragazzo di cui Laura gli aveva tanto parlato. Io dovevo ripartire, la sera stessa, con il treno di notte, che arrivava a Milano alle 6.00. Giusto in tempo per darmi una rinfrescata e andare al lavoro. Laura mi propose, con un breve cenno d’intesa, di andare a riposare nella mansarda. Mi ritirai perciò, non per dormire, ma per tener abbracciata Laura, che mi aveva raggiunto pochi minuti dopo.

Trascorse così l’anno 1959, con i miei viaggi del fine settimana, due volte al mese e con il ritiro dalle competizioni atletiche di Laura. Massimo morì nell’aprile 1959.

Io lavoravo alla SIRM, società italiana per le ricerche di mercato, fondata da un triestino, Ernesto Norbedo. Mi aveva presentato Gaetano Kanizsa, direttore dell’Istituto di Psicologia di Trieste.

Con la mia laurea in Relazioni Internazionali, imparai il mestiere del Ricercatore di mercato. Avevo preso in affitto un appartamento in via d’Alviano, nel quartiere Grigioni al Lorenteggio, 16 palazzoni di 8 piani, ciascuno con 24 appartamenti, tutti con cucina, soggiorno, due camere da letto e bagno. Insieme a me stava Giancarlo, un giovane avvocato di La Spezia che lavorava alla Zurigo Assicurazioni. Avevamo fatto arrivare dalle nostre case di Trieste e di La Spezia i mobili essenziali per arredare l’appartamento. Trascorremmo lì un anno intero, dal marzo 1958. Ogni sabato sera arrivavano due colleghi di Giancarlo, si cenava insieme e poi, dalle 22 fino alle 6 del mattino, giocavamo a poker, con un massimale al rilancio di 200 lire (circa 10 euro attuali). A fine nottata ritornavano a casa con il primo autobus delle 6. Chi vinceva metteva la vincita in un salvadanaio. Alla fine di ogni mese, a seconda dell’entità del bottino, si organizzava un cenone al ristorante oppure, nei casi più favorevoli, un week end intero.

Mio padre, dopo il fallimento della società per cui lavorava a Trieste, era rimasto senza lavoro. Aveva 59 anni. Mia madre non era più in grado di esercitare il mestiere di sarta a Trieste. Decidemmo, di comune accordo, che si trasferissero a Milano dove c’erano più possibilità, per entrambi, di trovare lavoro. Fu così che si concluse la mia coabitazione con Giancarlo.

Mio padre imparò a fare la codifica dei questionari, mentre mia madre cuciva abiti infantili per conto di un laboratorio, oltre a svolgere gran parte dei lavori di casa. Per ogni abitino riceveva 250 lire. Ne cuciva 2 al giorno, 12 per settimana. Insieme a mio padre riuscivano a contribuire al bilancio familiare con 30.000 al mese, lavorando ciascuno per 6 ore al giorno in casa, al netto dei viaggi per consegnare il lavoro fatto e ritirare il nuovo. Io ne guadagnavo il doppio e mi vergognavo come un ladro, nei loro confronti.

Avrei voluto che il mio stipendio fosse sufficiente al nostro mantenimento. Avrei voluto che si riposassero, avremmo cercato di risparmiare sulle spese alimentari, pensavo che potevamo farcela. Ma i miei, un po’ per orgoglio, un po’ per previdenza, si rifiutarono.

Nell’agosto del 1959, Laura viene a Milano insieme alla zia Giacomina. Fu per me un evento indimenticabile. Ricordo ancora il loro arrivo a Milano, il 14 agosto e io che le aspetto alla testa del treno.  Giacomina vedeva Milano per la prima volta, mentre Laura c’era già stata un paio di volte con l’Edera in trasferta. Volevo che fosse un arrivo in pompa magna fino a casa, perciò chiamo un taxi, salgo vicino al tassista, Laura e Giacomina siedono dietro. Do l’indirizzo di casa e inizia la traversata di Milano, da Nord a Sud, passando, su mia richiesta, da piazza Duomo. Dopo circa mezz’ora arriviamo al Lorenteggio e ci inoltriamo nella foresta dei palazzoni di via d’Alviano.

Senza farmi vedere pago al tassista 200 lire, quasi un vestitino cucito o 10 questionari codificati. Zia Giacomina non ha mai incontrato i miei genitori. Ma questo non è un problema per i miei che negli anni della clandestinità, hanno fatto consuetudine a coinquilini mai incontrati prima. Ci si abbraccia tutti e mio padre tira fuori da un nascondiglio una bottiglia di spumante per brindare all’evento. Inizia una settimana da sogno.

Quella settimana, dal 14 al 20 agosto del 1959, è vacanza per tutti. Decidiamo che, fin dal giorno dopo, usciremo tutti insieme al pomeriggio per visitare Milano.  Alla sera usciremo da soli, Laura ed io. Al mattino i senior faranno la spesa e noi… riposeremo. Saranno le nostre due ore di intimità, perché, la notte, Laura dormirà con Giacomina nella mia stanza, mentre io dormirò, come i bambini, nella stanza dei miei.

Ogni giorno a pranzo, grandi discussioni sul programma del pomeriggio. Il primo giorno, sabato, andiamo in piazza Duomo con l’autobus 50, poi in Galleria e in piazza della Scala. Il giro turistico del Centro prosegue in corso Vittorio Emanuele, sosta al caffè Barba del Corso e si conclude in San Babila. Lo shopping alla Rinascente viene rimandato al lunedì.

Ci andranno da soli i senior. Laura ed io cerchiamo di ritagliarci i nostri spazi. La sera andiamo da soli al cinema a vedere il film di Pietro Germi, ‘Un maledetto imbroglio’ in cui una delle protagoniste, Assuntina la cameriera, è interpretata dalla giovanissima attrice emergente Claudia Cardinale. E come Assuntina abbraccia il suo fidanzato Diomede io abbraccio Laura. Ricordo bene gli abbracci, la trama del film… un po’ meno.

La memoria di quello che facemmo nei giorni successivi è confusa. Passiamo la domenica sul lago di Como, con una gita in battello, il lunedì visitiamo il Castello Sforzesco e il parco Sempione, salendo sulla torre del parco.

Nei giorni successivi prendiamo il tram 29, per fare l’intera circonvallazione delle mura spagnole, e il filobus 96 per la circonvallazione dei Navigli, fermandoci qua e là per vedere i diversi rioni della città. In quella settimana anche mio padre e mia madre ne approfittano per conoscere Milano, come non ne avevano mai avuta la possibilità. Alla sera, dopo cena, Laura ed io usciamo per una passeggiata nella campagna milanese. Usciti dalla selva dei caseggiati di via d’Alviano, tutt’intorno fino al piazzale delle Bande nere è campagna. Ci sdraiamo sull’erba e sogniamo il nostro futuro a Milano. Rientriamo a mezzanotte, in punta di piedi, mentre i senior fingono di dormire. Martedì 18 agosto è il nostro anniversario. Stiamo insieme, anche se lontani, da un anno.  Porto Laura a conoscere il posto dove lavoro, in via Conservatorio 15 dopo San Babila, poi andiamo a pranzo, noi due, nella trattoria da Carminati all’angolo di piazza Tricolore, dove vado ogni giorno. Ho l’abbonamento a 11 pasti per 2500 lire (l’undicesimo è gratis). Sono un cliente fisso, siamo serviti dal solito cameriere che mi tratta con familiarità.

Spiego a Laura il lessico lombardo, dove cicoria significa radicchio, mentre da noi si chiama così la catalogna mentre la scorcionera sono le radici amare. La cotoletta alla milanese è l’equivalente o quasi, del nostro Wiener schnitzel. Da Carminati naturalmente sanno trasformare un bocconcino in cotolettina. Si sente infatti un gran battere in cucina. Dopo il pranzo andiamo da Wally, la famosa gelateria aperta dalla figlia di Toscanini in piazzale Lavater.  Al rientro a casa abbiamo tante cose da raccontare. Il venerdì 21 arriva presto, la partenza per Trieste è fissata per il sabato mattina 22. Io ho rinunciato ad accompagnare Laura e Giacomina a Trieste. Scenderò tre settimane dopo, per la seconda vendemmia, la prima senza Massimo. Restiamo intesi che andrò a stare a Rozzol, a casa loro. 

Anche questa decisione rafforza il nostro legame. Laura mi dice che Giacomina mi adora e questo mi rende felice.Purtroppo arriva anche una brutta notizia, la mia richiesta di esonero dal servizio militare è stata respinta, sarò richiamato nel marzo 1960. Devo pensare a organizzare la nostra sopravvivenza a Milano, durante i 18 mesi, fino all’agosto 1960.  Faccio parte del primo scaglione 1937 richiamato alle armi, a Trieste.  Nessuno dei miei compagni di liceo, tutti nati prima del dicembre 1936, ha fatto il servizio militare.  Qualcuno mi prende anche in giro, chiedendomi se sono andato alla Sorbona per prendere la patente de ‘ mona’.

A febbraio 1960 faccio l’ultimo viaggio a Trieste prima di partire per il servizio militare. Marco, compagno di Siora Pina, è appena morto. Siamo tutti e due tristi e per tirarci su di morale passiamo la serata del sabato alla birreria Dreher, nella grande sala ristorante e da ballo, con un’enorme botte di birra che domina la sala alle spalle del palco dell’orchestra. C’è una nuova giovane cantante, arrivata da Milano, Mina, che canta ‘Le mille bolle blu’ e altre canzoni che diventeranno famose. 

Quindici giorni dopo dovrò presentarmi alla caserma di Casale Monferrato per l’addestramento. Dopo i vari tentativi di esonero ho perso la possibilità di richiedere l’iscrizione alla scuola ufficiali.  Sarò arruolato in fanteria.

L’ultimo ballo è sulle note di una famosa canzone degli anni ’30 ‘Parlami d’amore Mariù’. E’ la prima volta che vedo spuntare una lacrima sul viso di Laura, mentre io trattengo a fatica il pianto. Il rientro a Rozzol è triste, ma la notte è lunga per consolarci, fino alle 12 del giorno dopo, quando Giacomina bussa alla porta, un po’ preoccupata. Alla sera riprendo il treno per Milano, con Laura che corre, fino in fondo al marciapiede.

Ho messo da parte 50.000 lire che serviranno per pagare il secondo semestre dell’affitto. Mio padre mi rassicura dicendo che quello che guadagnano basterà per le spese alimentari e per le bollette. Sono preoccupato ma devo raggiungere Casale Monferrato.  Appena arrivo cerco di capire se c’è la possibilità di guadagnare qualche soldo da aggiungere alla decima di 10 lire al giorno.

Nella camerata fa freddo, non si può stare lì nemmeno per scrivere una lettera e c’è troppo rumore. Per fortuna entro in confidenza con il maresciallo di fureria, che ha un figlio in terza media. Ha bisogno di ripetizioni di matematica e mi offro io: in cambio avrò a disposizione l’ufficio riscaldato fino alle 22, dopo la lezione che termina alle 19. Scrivo subito alla Sirm perché mi mandino qualche lavoro da fare. Mi occuperò della stesura dei codici per la codifica dei questionari di alcune indagini. Preparerò in sostanza il codice che verrà poi utilizzato da mio padre per la codifica. Le spedizioni da Casale a Milano e viceversa, sono rapide e gratuite, se ne occupa il maresciallo stesso; a Milano basta portare e poi ritirare il pacco alla caserma di via Moscova. In qualche modo mi par di essere anch’io parte dell’Arma.

Con Laura ci scriviamo regolarmente ogni settimana. Ha ripreso gli allenamenti. L’impegno sportivo, con qualche trasferta, l’aiuta a superare la nostalgia dei nostri incontri.  Mi chiede se può venire a farmi visita, ma l’ambiente di Casale Monferrato, invaso dai militari e dai loro familiari non è l’ideale per trattenersi un paio di giorni. Terminati i 3 mesi di addestramento sarò trasferito a Torino. Sarà più comodo arrivarvi da Trieste e trovare una sistemazione per qualche giorno. Inoltre sarà più divertente trascorrere qualche giorno e visitare la città che neppure io conosco. A Casale Monferrato, nella mia caserma, c’è un cantante già famoso, Adriano Celentano. Una sera scende sul prato interno, con la chitarra e canta ‘ Son 24.000 baci’. 

La maggior parte delle sere però esce con un gruppo di amici e vanno a cena fuori. A lui non mancano i soldi. Io sto già incominciando a risparmiare per il viaggio di Laura a Torino, devo inoltre andare a Milano per vedere come se la cavano i miei genitori e per prendere accordi con l’ufficio per il periodo in cui sarò nella nuova caserma. Il maresciallo di fureria è soddisfatto dei progressi del figlio e mi rassicura: parlerà di me ai colleghi di Torino.

 

E’ la fine del mese di maggio del 1960. Al ritorno da Milano partiamo per Torino, ora il futuro mi spaventa un po’ meno anche se faccio fatica ad ambientarmi. A fine mese Laura arriva. Ho trovato da affittare una stanza per 3 giorni in una piccola pensione, poco distante dalla caserma, alla periferia Ovest della città. Per queste tre giornate ho chiesto un permesso speciale. Posso uscire alle 8 del mattino e devo rientrare alle 22. Salgo da lei al mattino presto, mi cambio d’abito e usciamo in giro per Torino. A pranzo, compriamo dei panini e ritorniamo alla pensione. Ne approfittiamo per coccolarci un po’.

Poi di nuovo piazza Castello, via Roma, la stazione di Porta Nuova, il lungo Po, il Valentino, la collina di Superga. Verso le 20, compriamo ancora qualche panino e ritorniamo alla pensione. Poco prima delle 22, mi rivesto da militare e rientro in caserma. Le 3 giornate volano via e, l’ultimo pomeriggio, accompagno Laura al treno che la riporta a Trieste prima della mezzanotte.

Pochi giorni dopo veniamo informati che andremo a fare il campo estivo a Bielmonte, in provincia di Vercelli. Io faccio parte della squadra mortai, con l’incarico di tavolettista. Il capitano mi convoca nel suo ufficio il giorno prima della nomina e mi fa un lungo discorso. “Sai Visintini, io avrei dovuto essere tenente colonnello già da qualche anno, ma mio fratello è socialista, sindacalista della CGIL, per cui la mia nomina è stata congelata. Il tavolettista (che calcola la traiettoria da impostare sul mortaio per colpire l’obiettivo) dovrebbe essere caporalmaggiore, ma con i trascorsi della tua famiglia, non posso darti i gradi. Se accetti di farlo come soldato semplice, io ne sono contento”. Esco un po’ frastornato da questo colloquio e chiedo al mio amico che lavora in fureria di dare un’occhiata al mio fascicolo. C’è tutta la storia della mia famiglia, dall’assassinio di mio nonno all’uscita dal Consiglio Comunale di Trieste nel maggio 1922, fino al confino a Ponza e all’esilio in Francia di mio padre e mio zio, entrambi definiti sovversivi comunisti.  La guerra è finita da 15 anni, mio padre per campare, a 60 anni, codifica questionari nella periferia milanese, ma resta ancora un sovversivo per la patria. Un po’ alla volta scopro che la compagnia mortai, di cui faccio parte, è un covo di potenziali sovversivi.  Alcuni ragazzi hanno sentito la mia storia e vengono a confidarsi con me, sono tutti comunisti. E’ curioso, penso, come ciò sia possibile. Siamo schedati, ma ci affidano i mortai, l’arma tradizionale della guerriglia, che colpisce da lontano, senza vedere il bersaglio, grazie alla traiettoria impressa agli obici dall’alzo del mortaio.

In quei giorni del luglio 1960 è stato formato il primo governo appoggiato dai fascisti, presieduto dall’onorevole Tambroni. A Reggio Emilia la Celere di Scelba carica i manifestanti, ci sono 4 morti.  Ci riuniamo in camerata la sera per ascoltare la radio. Dal comando, a Torino, è arrivato l’ordine di essere pronti alla partenza, si parla di mobilitazione generale. Discutiamo animatamente se consegnarci oppure no. Due compagni, un maestro di Mantova e Carlandrea un laureato in legge di Savona, consigliano di aspettare. Hanno ragione loro. Due giorni dopo l’allarme è revocato e il governo Tambroni dà le dimissioni.

Con Carlandrea diventiamo amici fraterni. Si è imboscato in fureria, grazie ai consigli legali che presta gratuitamente agli ufficiali e sottufficiali della caserma. E’ lui che mi ha passato le informazioni sul mio dossier. Ora posso andare anch’io in fureria alla sera per lavorare. Una volta alla settimana addirittura ci ritroviamo in 5 o 6, al calduccio, a discutere della situazione politica. Siamo di fatto la cellula mortai della compagnia, che si riunisce in… fureria! Finito il campo estivo veniamo trasferiti a Vercelli. Mi avvicino un po’ a Milano, ma mancano ancora 11 mesi al congedo.

E che succede a Milano e a Trieste? A Milano la sopravvivenza dei miei genitori è problematica. Per guadagnare qualcosa in più mio padre, oltre alla codifica dei questionari, prende qualche incarico per interviste a funzionari e dirigenti d’azienda su nuovi prodotti e attrezzature industriali. Deve spostarsi con autocorriere e treni, dato che non possiede l’auto e spesso deve dormire in una pensione o alberghetto della località in cui si trova. Mia mamma continua a cucire i vestitini per bambini, ormai ne fa fino a 3 al giorno. Io non ho più tante opportunità di lavorare per l’ufficio a Vercelli e, quindi, riesco a contribuire alle spese solo marginalmente.

A Trieste Laura aspetta, mese dopo mese, il momento di venire a Milano. Ci scriviamo sempre ogni settimana, ma io non posso permettermi un viaggio a Trieste. Decidiamo che verrà a Milano a stare con i miei nel marzo 1961, circa 5 mesi prima del mio congedo. Io prenderò una licenza per stare insieme qualche giorno al momento del suo arrivo.

E finalmente siamo a marzo. Arrivo a Milano il giorno prima ed eccomi alla stazione ad aspettarla alla testa del treno. Corro incontro ad abbracciarla e me la stringo fra le braccia, mentre i passeggeri continuano a scendere dal treno. Siamo tra gli ultimi a lasciare la banchina e ci avviamo verso l’autobus N che ci porterà al Giambellino. Sono trascorsi 10 mesi dall’ultima volta che ci siamo visti, a Torino. Un’eternità. Non siamo ancora riuniti, io devo ripartire pochi giorni dopo, ma abbiamo tante cose da fare e da dirci.

A casa mamma e papà hanno preparato una cena di gala. Da oggi siamo una famiglia allargata. Laura è accolta come una figlia, in attesa di diventare la nuora. Mamma la accompagna in bagno e nelle due stanze da letto, in particolare quella che, fino alla sera prima, era la mia stanza. In mia assenza, è stata trasformata nella stanza di Laura. Sorpresa però… in due ore hanno messo un secondo letto affiancato al primo. Come avranno fatto? Non l’ho mai saputo. Stanotte dormiremo insieme per la prima volta tutta la notte e… alla luce del sole! Il giorno dopo è domenica. Usciamo, Laura ed io, a fare una passeggiata in centro a Milano. Laura vuol trovare subito un lavoro. Compriamo il Corriere della Sera e ci sediamo in un bar per consultare gli annunci di offerte di lavoro. In via Moisè Loria, una traversa di via Foppa, c’è una fabbrica di bakelite che cerca operai ambosessi. Non è lontano da casa e decidiamo di andarci direttamente il lunedì mattina. La signorina che ci riceve ci fa visitare il capannone dove si producono vari oggetti, interruttori, prese di corrente, ecc. Operai e operaie lavorano con le frese e l’aria è piena di polvere. Io vorrei andar via, ma Laura mi mostra che gli operai indossano una mascherina. Insiste per sapere quando si può incominciare. Anche domani, dice la signorina. La paga settimanale è di 10.000 lire lorde. Laura accetta e mi chiede di accompagnarla la mattina seguente.

La sera del martedì Laura ritorna a casa contenta. E’ piena di polvere. Fa una rapida doccia e poi a tavola ci racconta la sua prima giornata di lavoro a Milano. Mio papà ascolta e si limita a fare qualche domanda. Dopo cena, mentre Laura e mamma riassettano la cucina, papà mi sussurra all’orecchio “ Spero che sia per poco tempo, ho presentato a nome suo una domanda alla RAI nei servizi tecnici.”

Sono sorpreso e gli chiedo quando e come l’ha fatto. “Due settimane fa, sapendo che arrivava a Milano, ho fatto una ricerca di posti di lavoro disponibili per orfani di guerra e ho trovato questa possibilità in RAI. Fra un paio di mesi chiameranno i candidati per un esame di cultura generale e per valutare le capacità e la moralità delle candidate. Prima della chiamata prenderanno informazioni anche sulla famiglia, dove abita. Dato che ho messo il nostro indirizzo di Milano, ho già provveduto a dare una mancia alla portinaia perché dica che Laura Crismani abita qui con gli zii”. Mi sono fatto una bella risata e l’ho abbracciato, pensando in cuor mio a tutti gli stratagemmi che aveva dovuto inventarsi nei 12 anni di clandestinità in Francia. “ Però non dirle niente ora. Aspettiamo prima la chiamata”.  Il Mercoledì io riparto per Vercelli.

Un mese dopo sono passati dalla portineria due carabinieri che hanno fatto una serie di domande sulla signorina Laura Crismani. La portinaia è stata tanto convincente che non sono neppure saliti per un controllo di persona.

Fin dalla mia partenza mio padre ha incominciato con Laura un breve corso di cultura generale (Geografia e Storia dell’Italia e della RAI, Grammatica italiana, ecc). Ogni giorno, al ritorno dal lavoro, e poi al sabato e alla domenica. A fine maggio arriva la chiamata per le prove. Io non posso avere neppure un permesso di due giorni, dato che stiamo per andare in montagna, per un mese di scuola mortai e poi per un secondo mese di esercitazioni.

Alla sera della prova telefono a casa e mi risponde Laura “ Ce l’ho fatta! Inizio a lavorare in RAI dal 1 settembre”. Quell’espressione in RAI appartiene già alla cultura dell’azienda. Dopo lo scambio di baci telefonici, aggiunge : “ Tuo papà vuole che lasci il lavoro alla fine di giugno, per poter studiare bene il manuale del dipendente, che mi hanno dato’ . Io devo ritornare a Vercelli a fine luglio, per poi ottenere il congedo a metà agosto. Ricordo che le dissi : “ Decidete voi sul da farsi. Preferirei anch’io che tu lasciassi la fabbrica di bakelite”.

Le cose andarono proprio così. Laura lasciò il lavoro in fabbrica alla fine di giugno. Io trascorsi altri due mesi in montagna, in un borgo ‘Chioraira’ del comune di Ormea a 1100 metri sulle pendici del Pizzo di Ormea. Non avevo i gradi di caporalmaggiore, ma ero un vecio, prossimo al congedo. Insieme a un graduato fui destinato alla guardia dei mortai a quota 1.600 metri. Ci montarono una tenda spaziosa, quella da ufficiali, con un solo obbligo, fare la guardia. Due volte alla settimana, al mattino, saliva la squadra dal campo base di Chioraira per l’addestramento ai mortai. Erano stanchi dopo quasi due ore di cammino e ci trovavano sdraiati a pancia all’aria in mezzo ai mortai. A fine mattinata ripartivano. Tutti i giorni alle 13 arrivava dal campo base un messaggero con il pranzo e la posta o altre comunicazioni.  Avevamo deciso di rinunciare alla cena e alla colazione del mattino. C’erano nelle vicinanze due malghe coi pastori che ci rifornivano di latte e formaggio fresco. Il mio pensiero andava a Milano, ma ero felice, presto sarei ritornato, e Laura sarebbe entrata ‘in RAI’.

E finalmente arrivò il 18 di agosto. Ritornai a Milano dove i miei avevano preso un’altra decisione, piccola ma simbolica. Avevano deciso che dovevamo essere noi, Laura ed io, ad occupare la stanza con letto matrimoniale e loro si ritirarono nella stanzetta con due letti. C’era ancora un’altra grande notizia: dal 1° settembre anche mio padre aveva trovato un impiego fisso, nella portineria del quotidiano Stasera. La nostra nuova vita incominciava sotto i migliori auspici.

 

2. Oltre 30 anni di vita a Milano

 

 2.1  I periodi migliori

Quell’autunno 1961 è stato uno dei periodi più belli che abbiamo trascorso a Milano. Laura aveva iniziato il lavoro in RAI. Per lei operaia in fabbrica si apriva un mondo nuovo. Ricordo con commozione i primi giorni in cui al ritorno dal lavoro ci raccontava: ”Faccio parte di un gruppo di 6 persone che lavorano sulla pellicola. Il primo controlla la qualità della pellicola e decide quali pezzi vanno tagliati perché di qualità scadente, il secondo sceglie le parti da salvare per il montaggio, il terzo taglia il negativo nei punti indicati dai primi due, il quarto riassembla le parti tagliate, il quinto dà le luci, il sesto controlla il montaggio finale della pellicola. A me che non ho esperienza insegnano come si fa il taglio del negativo, l’operazione in cui basta essere precisi, perché le decisioni le hanno già prese gli altri”.

Dopo la prima settimana di lavoro, è entusiasta ed emozionata: “Oggi ho fatto il primo taglio del negativo della pellicola sulla puntata di Lascia o Raddoppia che andrà in onda dopodomani. Dobbiamo andare a vederla al bar, in piazza Frattini”. La settimana dopo, addirittura non sta più nella pelle: “Stamane stavo andando al bar, all’ultimo piano, per bere un cappuccino. Ho preso l’ascensore e chi c’era dentro... Mike Bongiorno! Proprio lui. Mi ha salutata ed è venuto anche lui al bar? Ogni giorno era una scoperta, che riguardava colleghi, artisti, macchinari, metodi di lavoro. Mike Bongiorno, per esempio, era ‘pignolo’, non si fidava di nessuno. Faceva girare all’operatore chilometri di pellicola, ripetendo più volte la stessa scena e poi scendeva in sala montaggio per controllare personalmente le scene da tagliare. ‘Quando si lavora per lui stai pur certo che si fa tardi alla sera’. Ma era felice.

Io ripresi il lavoro alla SIRM, con un incarico non ben definito di assistente di Norbedo, il direttore, che mi aveva sempre avuto in simpatia. Avevo la scrivania nella stessa stanza della sua segretaria, Ilke, una signora della Svizzera germanica. Era separata dal marito e aveva una figlia di 13 anni, Martine, che frequentava la terza media. Avendo studiato a scuola il tedesco, un giorno entrai in ufficio dicendo: “Cara Ilke, ti propongo di suddividere la settimana lavorativa in 3 parti: Underwoch, la parte bassa, lunedì e martedì, Mittwoch , la parte media il mercoledì, che in tedesco si dice appunto Mittwoch, Uberwoch, la parte alta cioè giovedì e venerdì.” Ricordo ancora la sua risata e il suo squillante “Wunderbar” (meraviglioso). Diventammo amici. Mi disse che viveva da sola con la figlia in un appartamento di via Mac Mahon. Era preoccupata per le difficoltà che Martine incontrava a scuola. Le proposi di darle ripetizioni di matematica dopo l’orario di lavoro. Andavamo insieme a casa sua verso le 18 e mi trattenevo fino alle 19.  Martine si dimostrava contenta dell’insegnante, amico della mamma. Già alla seconda settimana Ilke mi chiese di fermarmi a cena con loro, ma io mi giustificai, parlando di un impegno che non potevo rinviare. Ma fin dalla settimana successiva, gli inviti furono più pressanti, accompagnati da alcuni accenni al dopocena. Fu allora che decisi di cambiare lavoro. Guadagnavo ormai troppo poco (90.000 lire al mese, senza contributi) e per me esisteva soltanto Laura e il nostro futuro. A metà ottobre venni convocato in via Paolo da Cannobio da Monsieur Gallen, un francese, che era da poco arrivato in Italia per fondare la filiale del gruppo Van Leer, una multinazionale olandese nel settore degli imballaggi. Il colloquio ebbe esito positivo e fui il primo dipendente assunto con uno stipendio da favola, 140.000 lire nette al mese, con contratto regolare di lavoro.

Papà iniziò anche lui il nuovo lavoro il primo di settembre. Il palazzo in cui aveva la sede il quotidiano Stasera, viale Fulvio Testi 75, era lo stesso della redazione milanese de l’Unità. Ogni tanto qualche dirigente del PCI, di passaggio a Milano, veniva per incontrare Aldo Tortorella, che all’epoca era il direttore. In portineria si alternavano alla reception, un dipendente di Stasera (mio padre) e un dipendente de l’Unità. Una sera, papà, di ritorno a casa: “Indovinate chi ho visto oggi…. Giancarlo Pajetta! L’ho salutato, mi ha guardato per un po’ e poi ha esclamato Griso!! (nome di battaglia di mio padre nella clandestinità)”.

Ci sentivamo dei signori con tre stipendi alla fine di ogni mese. Mamma lasciò il lavoro di confezione di vestitini, per badare alla casa e ai 3 lavoratori. Decidemmo che bisognava trovare una sistemazione più comoda e accogliente, possibilmente più vicina al Centro e meglio collegata ai nostri posti di lavoro. Noi Visintini siamo ‘nemici’ del risparmio. Non abbiamo mai fatto debiti, ma abbiamo sempre speso quasi tutto quello che guadagnavamo. Laura era un po’ perplessa all’inizio, venendo da una famiglia povera ma risparmiatrice, come quella degli zii. Tuttavia non faticò ad adeguarsi al nostro stile di vita. Scartammo subito gli appartamentini che ci venivano proposti e indirizzammo la nostra scelta su una villetta all’inizio di viale Zara, nel villaggio cosiddetto dei ferrovieri, costruito nei primi anni del Novecento, fatto tutto di villette mono e bifamiliari, collegate fra loro da una serie di stradine private, accessibili solo ai residenti. La nostra era una costruzione con un seminterrato, un piano rialzato e un primo piano, circondata da un giardino di circa 200 metri quadri. Davanti c’era un portichetto con l’ingresso in un piccolo atrio da cui si passava in cucina e in un vasto soggiorno. Al primo piano c’erano le due stanze da letto, una grande matrimoniale e l’altra più piccola, con in mezzo la sala da bagno. Il seminterrato molto spazioso aveva delle finestrelle sul giardino circostante la casa.  Piacque a tutti noi e firmammo subito il contratto di affitto per entrare il primo gennaio 1962. Non trattammo nemmeno l’ammontare dell’affitto, accettammo subito la proposta dei proprietari. I due mesi che seguirono, novembre e dicembre, furono di grandi preparativi. Decidemmo di acquistare il primo televisore, un Brionvega, la marca milanese per eccellenza e un frigorifero più grande.

Finalmente arrivò la fine del mese di dicembre. La proprietaria ci diede le chiavi alcuni giorni prima e così, dopo un rapido sopralluogo, affidammo l’incarico della pulizia generale a una donna che conoscevamo e, il 29 dicembre, traslocammo in modo da trascorrere Veglione e Capodanno nella nuova casa. Sabato 30 dicembre andammo tutti a fare un giro a piedi per conoscere i dintorni. Da piazzale Lagosta, iniziava il viale Zara. Essendo noi al n. 24, distavamo circa 200 metri. Lì scoprimmo il mercato settimanale del sabato che si inoltrava in via Garigliano e via Borsieri, fino a piazzale Minniti, per ritornare poi verso via Volturno e da lì nuovamente in piazzale Lagosta. Rimandammo l’esplorazione al giorno dopo e ritornammo a casa con tante borse piene di spesa. La giornata fu tutta dedicata alla logistica, alle discussioni sul dove e come sistemare i mobili e sulle cose da acquistare. I miei vollero che la stanza da letto matrimoniale fosse mia e di Laura. Poi lasciarono tutte le decisioni a noi giovani. Mettemmo in bella posizione nel salotto il televisore appena acquistato, poi il divano, le due poltrone, il tavolo, le sedie e una credenza. La cucina era piccola ma sufficiente per gli elettrodomestici, per gli armadietti con le provviste e gli attrezzi da cucina e per un ripiano da lavoro. In bagno decidemmo di comprare la nostra prima lavatrice. Nel seminterrato c’era solo una grande stufa di ghisa; ci stava benissimo anche un tavolo da ping pong. Al giardino avrebbe pensato mio padre. Alla sera crollammo tutti sfiniti sui nostri letti.

La mattina seguente Laura ed io ci alzammo e trovammo la casa ben riscaldata. Mio padre aveva acceso la grande stufa nel seminterrato che faceva da caldaia per l’impianto dei termosifoni in casa.

I miei vollero restare a casa per preparare il cenone e ci chiesero di stare fuori tutta la giornata. Andammo così alla scoperta dell’Isola, il vecchio quartiere operaio costruito a fine Ottocento a ridosso della ferrovia e della stazione Garibaldi. Allora era isolata dal resto della città, da qui il suo nome Isola. Era stata anche rifugio della piccola malavita, proprio perché difficile da raggiungere. La contornammo tutta, quella domenica, da via Della Pergola a via Dal Verme e piazzale Archinto, fino in fondo, alla via Guglielmo Pepe lungo la ferrovia, per risalire poi per via de Castillia e via Volturno. Non avevo mai visto case così fatiscenti come quelle con ringhiera del vicolo De Castillia. E pensare che dal 2012, lì sorge la Torre 1 del bosco verticale di Tito Boeri! All’angolo fra via Volturno e via Sebenico entrammo nel salone del Circolo della Cooperativa Sassetti. Quel momento segnò profondamente la nostra vita nell’Isola.

 Il salone era molto ampio con circa 20 tavoli e un bancone bar sulla sinistra. Era affollatissimo di persone dai 50 anni in su e quasi tutti giocavano a carte. Non solo uomini, ma anche donne. Una di loro, Ebe, si alzò e ci venne incontro. Le dicemmo che eravamo appena arrivati all’Isola e che volevamo ambientarci. Ci fece visitare gli altri locali, una saletta riunioni, l’ufficio della Cooperativa, e, più distaccata, la sede della sezione Primo Maggio del Partito Comunista Italiano. Li trovammo il segretario, Marcello Buttiglione della Basilicata, Antonio Scordo e Giuseppe Turano, entrambi della Puglia.  Io mi presentai, ero iscritto alla sezione Giambellino e chiesi il trasferimento in questa sezione, Laura chiese d’impulso l’iscrizione al PCI. Fui sorpreso “Sei convinta ?” “Certo, l’avevo già pensato senza dirtelo e questa è l’occasione giusta” mi rispose. Marcello mi chiese da quando ero iscritto ed io gli dissi che ero stato iscritto in Francia ed ora in Italia e gli parlai della mia famiglia. “Allora possiamo fare la tessera anche alla tua compagna senza chiedere informazioni” Mi disse stringendomi la mano. A quei tempi infatti la tessera poteva essere rilasciata solo dopo che la Federazione provinciale aveva preso informazioni sul richiedente.

 A pranzo ci fermammo a mangiare al Circolo che aveva anticipato i tempi aprendo una tavola calda. Feci anch’io una partita a Scopone con Marcello, Antonio e Giuseppe. Nel primo pomeriggio arrivò un omone, alto più di me e grosso, che sedette all’angolo. “E’ un operaio dell’Alfa Romeo, uno dei più forti giocatori di Scopa del circolo’  mi sussurrò Marcello. Incominciarono la partita. Di lì a poco sentii la voce baritonale del gigante che gridava al suo socio: ”Va da via el cu!”. Aveva sbagliato lo scarto. Restammo lì a guardare i giocatori. Marcello ci invitò a partecipare a una riunione la settimana seguente. Ritornammo a casa verso sera, Io e la neo reclutata del PCI Laura Crismani. Il cenone fu ricchissimo, dall’antipasto ai dolci fatti in casa, fino allo spumante. Poi tutti davanti alla televisione ad aspettare la mezzanotte. Ripenso ancora alle emozioni di quella giornata: la scoperta dell’Isola, l’incontro con Marcello e gli altri al Circolo Sassetti, l’iscrizione di Laura al PCI, il ricco cenone, lo spettacolo in TV, guardata per la prima volta sul divano di casa.

Lunedì primo gennaio uscimmo tutti insieme a fare una passeggiata per l’Isola. Il giorno dopo saremmo andati al lavoro partendo dalla nuova casa. Al ritorno, proprio di fronte a casa, vedemmo il negozio ‘ Calzature Turano’. Era chiuso, ma era il negozio del compagno che avevamo incontrato il giorno prima alla sezione del PCI Primo maggio. Laura mi diede un’occhiata d’intesa e disse:

Che praticità, abbiamo questo bel negozio di scarpe proprio davanti casa, confezionano anche scarpe su misura”. Ricordo che giocammo a Scala Quaranta quella sera fino a tardi, naturalmente con la televisione accesa.

 

Nei giorni successivi ci ritrovavamo tutti insieme a cena la sera e ci si raccontava le novità della giornata. Laura in RAI incontrava quasi ogni settimana qualche nuovo personaggio (Alberto Lupo, Nicoletta Orsomando, Nunzio Filogamo, ecc), papà a Stasera stava diventando il custode misterioso (qualche storia della sua vita passata si era diffusa dopo l’abbraccio ricevuto da qualche dirigente nazionale in visita), io avevo appena preso la patente. Una sera venni a casa con l’auto in dotazione, una Renault R4 nuova. Dopo cena dissi :” Facciamo un giro per Milano”  Mio padre era stanco e preferì restare a casa a guardare la TV.  Mia mamma salì davanti e Laura dietro. Prendemmo la circonvallazione in viale Stelvio fino al ponte della Ghisolfa e da lì imboccai a sinistra il viale Certosa per arrivare davanti alla RAI, perché mia mamma vedesse dove lavorava Laura. Giunto in corso Sempione: “Guarda mamma più avanti sulla destra c’è il palazzo della RAI, Laura faglielo vedere”, ahimè!  Non mi ero accorto di essere già arrivato al semaforo di via Procaccini, a luce rossa in quel momento. Frenai bruscamente col pedale e con il freno a mano nello stesso tempo, la macchina si inchiodò e mia madre andò a sbattere la testa sul parabrezza. Allora non c’erano le cinture di sicurezza. Ritornammo subito a casa. A mio padre che ci interrogava, mia madre rispose correndo in bagno: ‘Bel! Bel! Che emozion!”. Laura la aiutò a fasciarsi la testa con un asciugamano bagnato e si ritirò subito in camera da letto. Io spiegai a mio padre l’accaduto. Non ci furono conseguenze, se non che spuntò un bernoccolo sulla fronte di mia madre e mio padre alla sera le ripeteva: ‘ Bel, Bel, che emozion!”. A febbraio vedemmo anche in TV il nostro primo Festival di Sanremo, che vide gli esordi di Rita Pavone.  Ad aprile entrò a far parte della nostra famiglia Lupa, un bel cane pastore tedesco di 5 anni, che una collega aveva offerto a Laura. Ricordo che Laura venne a casa e non aveva il coraggio di parlarne. Lo disse prima a me e poi decidemmo di dirlo ai miei, che avevano per Laura un amore da genitori. Naturalmente Lupa fu accolta. Era molto brava, bisognava stare attenti solo alle divise, abbaiava al postino, allo spazzino, ai vigili…  e alla polizia nei cortei per la pace in Vietnam.

Alla fine del mese di febbraio decidemmo di sposarci. Avevamo entrambi un posto di lavoro, però da poco tempo, perciò evitammo di chiedere le 2 settimane di ferie matrimoniali. Consultammo il calendario. Pasqua era alta, il 22 aprile, a metà settimana c’era il 25 aprile e poi il martedì 1 maggio. Dal venerdì 20 aprile al 1 maggio c’erano solo 4 giorni lavorativi. Questo piccolo permesso ci fu accordato senza problemi. Il pranzo di nozze sarebbe stato a casa nostra, cuoco mio padre. Il mercoledì 18 mia mamma andò dalla fioraia per ordinare una composizione floreale per il venerdì. Alla richiesta della mamma la fioraia rispose:  Ma signora mia, si sbaglia, non è possibile, non si fanno matrimoni il venerdì santo!”. E mia madre un po’ imbarazzata: “E’ una circostanza eccezionale, sa” e ottenne la composizione per il giovedì sera. Gli invitati furono, oltre ai miei, mio zio Ferrer con la sua compagna Ninetta, il mio amico d’infanzia Giordano con sua madre Argia. L’appuntamento era a Palazzo Marino alle 11. Avevo chiesto che il matrimonio venisse celebrato dal consigliere Aldo Tortorella, direttore de l’Unità di Milano.  Laura era bellissima, con un tailleur rosa, cucito da mia madre insieme a una camicetta a fiori color pastello.  I testimoni erano mio padre per Laura e mio zio per me. Appena firmati i registri, mio padre si scusò, doveva finire di preparare il pranzo e corse a casa.

 Noi invece andammo a berci un aperitivo in Galleria. Per il viaggio di nozze avevo prenotato il volo per Sassari. Andammo a La Maddalena per alcuni giorni. Di quel viaggio ricordo la gita a Bonifacio, in Corsica e la gita a Caprera, soggiorno di Garibaldi. Spendemmo come al solito tutti i soldi. Per il ritorno prendemmo due posti sul ponte della nave traghetto per Civitavecchia e, da lì, due biglietti di 3° classe, quella con le panche di legno, fino a Milano.

Ma arrivò l’autunno del 1962 con un tragico evento: il 22 ottobre morì Enrico Mattei, il Presidente dell’ENI, nello scoppio dell’aereo, restato avvolto nel mistero, mentre stava atterrando a Linate. Mattei aveva finanziato l’impresa del quotidiano Stasera, voleva che Milano avesse un quotidiano della sera, democratico. Il giornale non si reggeva ancora, dopo un anno, senza un finanziamento esterno. E così ne venne decisa la chiusura.

La federazione milanese del PCI intervenne prontamente e la Legacoop propose a mio padre di andare a fare il contabile a Novate Milanese, presso la Cooperativa edilizia locale. Per un verso era una soluzione positiva, andava a fare il suo vecchio mestiere, praticato in gioventù, ma il viaggio a Novate Milanese era un problema. Impiegava un’ora e mezza all’andata e altrettanto al ritorno. Pochi mesi dopo, essendosi ambientato sul lavoro, trovò un appartamento a Novate Milanese dove i miei si trasferirono nella primavera del 1963.

Quella primavera fu memorabile per me e per Laura. Le elezioni politiche nazionali erano fissate per il 7 giugno.  Stava nascendo il Centro Sinistra, fondato sull’alleanza fra Democrazia Cristiana e Partito socialista, che da tempo aveva rotto con il PCI. Io fui scrutatore e Laura rappresentante di lista del PCI nello stesso seggio. Marcello faceva la spola fra i diversi seggi per portare i generi di conforto. Era la prima esperienza politica sul campo di Laura, che, nei mesi precedenti, mi aveva accompagnato soltanto nella vendita de l’Unità porta a porta alla domenica mattina. Era solita dire “Datemi da fare, no me piasi le ciacole”, con l’amore per il nostro dialetto triestino, che non l’avrebbe mai abbandonata.

Avevamo una casa tutta nostra. Nel seminterrato installammo il tavolo da ping pong e, spesso, la sera o nel fine settimana, scendevamo a fare delle partite memorabili. Trasformammo la camera da letto che era stata dei miei genitori in studio per me con una piccola scrivania, un armadietto e una libreria e per Laura con una poltrona e un tavolo da lavoro. Un po’ alla volta venne fuori la sua passione nascosta: la pittura. Aveva un senso innato per il colore. Non aveva studiato, era il suo cruccio. Mi rammarico di non aver insistito allora per trovare un insegnante che la guidasse nel coltivare questa dote.

Un paio di volte al mese, alla domenica, andavamo dai miei a pranzo a Novate Milanese. Approfittavamo anche per fare delle lunghe passeggiate nella campagna, lungo il torrente che separa Novate da Bollate, insieme alla Lupa, felice di correre nei prati a prendere i pezzi di legno che le lanciavamo. Fu così che imparammo a conoscere quella zona.

Alla fine del 1963 i rapporti fra la Cina di Mao e l’Unione Sovietica peggiorarono. Alcuni compagni simpatizzavano per la Cina, fra questi Marcello, il segretario della Sezione. La Federazione ci chiese di convocare un’assemblea, che fu presieduta da Armando Cossutta. Nell’introdurre la discussione, questi accusò Marcello di troppa condiscendenza verso la Cina, e gli chiesei di rassegnare le dimissioni. Marcello se l’aspettava e non battè ciglio, disse che restava fedele al PCI ma non si sentiva più di guidare la Sezione. La maggior parte dei compagni che intervenne, fece il mio nome come candidato a segretario. Laura sedeva accanto a me e mi sussurrò: “No accettar, no te saria più a casa la sera”. Nel concludere la discussione, Cossutta disse: “Mi pare che ci sia stata una chiara indicazione per Giorgio Visintini, lo invito quindi a salire sul palco”.

Si levò un applauso sempre più esteso e forte. E io salii sul palco. In quel momento prevalse l’ambizione, l’egoismo. “Accetto questa responsabilità, però chiedo a Marcello di restare accanto a me come vicesegretario della sezione” La dichiarazione lasciò Cossutta interdetto, ma sentendo applaudire l’assemblea, dichiarò: “Visintini viene eletto segretario della sezione Primo Maggio e chiedo a Buttiglione di restare in segreteria”.

Marcello ci invitò per un brindisi a fine serata e ricordo ancor oggi le sue parole: “ Sono sicuro che farai un buon lavoro. Io ho bisogno di più tempo libero in questo momento perché è arrivata mia sorella da Matera con i due bambini e sono diventato io il capofamiglia. Vieni al Circolo sabato pomeriggio così ti faccio vedere i documenti della sezione e ti faccio conoscere anche i soci più importanti della Cooperativa Sassetti. Devi farti conoscere da tutti e, soprattutto acquisire l’autorevolezza, che ti manca, essendo molto giovane e ‘forestiero’.” Rientrai a casa con Laura che era rimasta silenziosa. Non era d’accordo e io non ne avevo tenuto conto. Non ne parlammo quella sera.

Sabato pomeriggio mi trovai in Sezione con Marcello e alcuni altri compagni. Decidemmo di convocare un’altra assemblea per eleggere il nuovo Comitato direttivo. Parlammo delle persone che potevano farne parte: Velardi, Turano, Scordo, ecc. Io chiesi di valutare anche alcuni giovani, fra i quali Gaspara Pajetta (la figlia di Giancarlo) e l’architetto Vercelloni. Terminata la riunione entrammo nel salone del circolo e io mi diressi verso il tavolo d’angolo, a destra del bancone, dove stava seduto il gigante, che avevo ribattezzato ‘Vadaviaelcu”. Gli chiesi se voleva fare una partita a Scopa. Mi guardò sgranando gli occhioni e bofonchiò “a scopa liscia o d’assi?” Feci una faccia sbalordita ed esclamai: “liscia naturalmente” . Vidi il suo sorriso furbesco e presi subito il mazzo di carte. Fin da bambino avevo appreso nelle lunghe serate trascorse con i miei giocando a carte, durante la clandestinità, i vari trucchi per memorizzare le carte uscite. Velocemente si raccolsero intorno a noi altri giocatori curiosi di assistere a questa strana disfida, che tutti davano per vinta da Vadaviaelcu. Quando arrivammo in fondo al mazzo, gli dissi :‘ tocca a te. Che giochi, la donna, il fante o il settebello? ” Si guardò le carte, quasi non ci credesse, strabuzzò gli occhi, e giocò il fante (in tavola c’era un quattro). Io misi un asso e lo lasciai fare il nove. Poi misi il mio 6, lui scese con il 7 e io tirai su tutto con il 10. Mi era bastato prendere il suo settebello. Facevo denari, settebello, primiera e carte. Cappotto 4 a 0. Per la verità avevo avuto anche buone carte. Marcello scoppiò in una risata, che trattenne per non irritare il gigante. Ma questi si alzò, era enorme, alto almeno un palmo più di me e grosso il doppio, mi tese la manona e con voce cavernosa disse: “Va da via el cu, ti son un brav fieu”. Da quel giorno diventai autorevole di fronte a tutti, mi ero conquistato i galloni da segretario. Con una sola partita a scopa, più che con tanti discorsi.

In fondo alla via De Castillia sul piazzale dove più tardi fu costruito il grattacielo degli uffici comunali c’era la vecchia fabbrica Brown-Boveri. Era in corso uno sciopero da due giorni contro il trasferimento della fabbrica nella zona di Magenta. Alcuni compagni avevano distribuito un volantino in cui si annunciava un comizio alle 13, nell’intervallo del pranzo. Fu il mio primo comizio. Lo scrissi per intero e lo mandai a memoria la sera prima, non doveva durare più di 15 minuti.  All’ora indicata si erano radunati davanti al cancello della fabbrica quasi 100 operai e passanti incuriositi. Salii su un grosso bidone di acciaio e parlai, dapprima con voce incerta e poi con voce sicura e tonante. Avevo intravisto in fondo al piazzale Laura che, per sentirmi, aveva chiesto un permesso in RAI. Corsi ad abbracciarla e lei commossa mi disse:

“ te me ga piasudo, go capi tutto quel che te ga dito e anche i operai. Te gà fato ben de far el segretario” Più che convinta sembrava rassegnata. Ci abbracciammo e tornammo al nostro lavoro.

A novembre del 1964 ci furono le elezioni amministrative. Mi chiamarono a Novate Milanese per chiedermi di accettare la candidatura nelle liste del PCI. Ne parlai stavolta con Laura e con il suo accordo accettai. Se eletto, si trattava di andare a Novate circa due sere al mese, era anche l’occasione per stare un po’ con i miei genitori.

Fui eletto consigliere comunale. Quando andavo a Novate, Laura veniva con me, cenavamo con i miei, io andavo in Comune e poi ritornavo a casa con Laura verso la mezzanotte. Ma ben presto gli impegni a Novate aumentarono e diventavano incompatibili con la carica di segretario della più grande sezione di Milano, dato che pochi mesi prima la sezione Ferretti si era unita alla Primo Maggio, costituendo la sezione Primo Maggio Ferretti con quasi 1000 iscritti. Il lavoro era enorme. Ogni domenica mattina andavo a diffondere l’Unità con Laura in una zona diversa, perché volevo conoscere di persona tutti gli iscritti. Poi c’erano le riunioni in sezione e nelle cellule della sezione. Avevo libera una sera alla settimana.

In più naturalmente c’era il lavoro in azienda. Avevamo costruito uno stabilimento a Lomagna (Co) e gli uffici erano stati trasferiti da via Paolo da Cannobio a Lomagna in una palazzina a fianco dello stabilimento. Partivo da viale Zara la mattina alle 6.30 e ritornavo dopo le 18, per uscire di nuovo dopo le 20.30. A Novate ci proposero in affitto un bell’appartamento nuovo all’ 8°piano di un palazzo appena fuori dal centro. Valutammo i tempi di percorrenza al lavoro. Laura poteva contare sulla Ferrovia Nord che, in poco più di 10 minuti,  la portava da Novate alla Bullona, a fianco di Corso Sempione. Io da Novate in macchina potevo prendere l’autostrada a Cormano e arrivare a Lomagna impiegando mezz’ora in meno. A Laura la casa piaceva. Prima dell’estate 1965 lasciammo l’Isola ed io lasciai l’incarico di segretario della sezione Primo Maggio Ferretti. Ci iscrivemmo alla sezione PCI Gramsci di Novate Milanese.

Laura era più serena, avevamo più tempo per stare insieme. Alla domenica partivamo per delle gite in montagna intorno a Lecco o a Bergamo, oppure sulle rive del Ticino, sempre con la Lupa che era ormai diventata la nostra compagna. Laura incominciava il lavoro più tardi, con orario dalle 10 alle 18.30. Al mattino presto usciva per un giro nella campagna novatese e la faceva correre in modo da stancarla, perché fino a sera restava sola sul balcone. Un pomeriggio si scatenò un forte temporale. Rientrando trovai Lupa rannicchiata dietro la porta di entrata. Tremava e non mi fece le solite feste. Vidi la porta della sala aperta e le tende della porta finestra del balcone che svolazzavano. Lupa, presa dalla paura dei tuoni, aveva sgranocchiato alcune strisce della tapparella di plastica ed era entrata in sala e poi nel corridoio davanti alla porta dove l’avevo trovata! Poco dopo rincasò anche Laura e dal giorno dopo la lasciammo in sala e non più sul balcone.

In RAI Laura aveva fatto esperienza sia nel taglio del negativo che come datore luci e, talvolta, veniva chiamata anche come aiuto montatrice, l’operazione finale sulla pellicola, alle dirette dipendenze del regista. Ero fiero della mia Laura, da operaia con la sola seconda media commerciale era diventata una addetta ‘multitasking’ del settore sviluppo e stampa della RAI di Milano. Partecipava anche a corsi di formazione interni sui nuovi tipi di pellicola. Si stava appassionando alla fotografia e, ogni domenica, portava sempre la macchina fotografica a tracolla. Negli intervalli di lavoro, in RAI, sviluppava le foto fatte la domenica.

Da tre anni non prendevamo precauzioni nei rapporti sessuali, volevamo avere dei bambini… ma non arrivavano. 50 anni fa, non c’era l’abitudine di consultare il ginecologo. Nell’estate del 1965, decidemmo di rivolgerci a un noto professionista, Beltramini. Le difficoltà di concepimento erano dovute a me, a lei o a entrambi?  Beltramini la visitò e chiese “signora lei pratica uno sport ?”. Laura disse che aveva praticato l’atletica leggera. E lui: ”Lei ha una muscolatura sviluppata anche nell’utero e, da qui, un restringimento della vagina e delle tube di Falloppio , per cui gli spermatozoi faticano a raggiungere  le ovaie.

Poi guardandomi aggiunse sorridendo:” Ovviamente può dipendere anche da una ridotta capacità di penetrazione; ad ogni modo non preoccupatevi, impegnatevi in particolar modo nei giorni fertili e vedrete che prima o poi arriverà. Eventualmente ci rivediamo tra un anno.” Ci impegnammo tanto che sei mesi dopo…

Laura era partita all’inizio di marzo per una settimana di vacanza a Laigueglia insieme a due colleghe della RAI. Alla partenza aveva già una settimana di ritardo, ma non mi disse nulla. Da Laigueglia, a metà settimana, mi telefonò la sera:“ Bobo son incinta ! Son andada in farmacia e gò fatto el test! “

Feci un balzo dalla gioia e ben conoscendola, la prima cosa che le dissi fu: “ Sta attenta no far el bagno in mar che l’acqua è assai fredda !” E lei ridendo: “ Gavemo festeggiado proprio con un tocio in mar “.

Sul lavoro io ero entrato in crisi. Eppure ero il responsabile commerciale e guadagnavo più di 200.000 lire al mese. Una sera, ritornando dalla sede della Esso a Genova mi fermai all’autogrill di Tortona. Avevo concluso un contratto di vendita importante, eppure mi sentivo un po’ depresso, deluso. Riflettei per un’ora circa e conclusi che l’attività commerciale non mi soddisfaceva. Dovevo cambiare. Ne parlai con Laura che mi disse di decidere come volevo. Il giorno dopo andai da Gallen e, mentre si complimentava per il contratto firmato con la Esso, gli comunicai che intendevo dare le dimissioni. Fece un balzo sulla sedia e mi gridò “ Tu es con (sei un  coglione). Credi che io resterò qui per sempre? Io voglio ritornare in Francia dove l’azienda ha 4 stabilimenti e spero di diventarne il direttore generale. E chi mi sostituirà qui? Sei con me da 4 anni, sei il più anziano e sei il direttore commerciale, dunque il candidato naturale a succedermi al più tardi fra due anni. Ho deciso, ti mando per due mesi in sede a Amstelveen, alla periferia di Amsterdam. Ti occuperai di studiare i nuovi mercati e la direzione generale potrà conoscerti.” Non volle sentir ragioni. Al primo di ottobre del 1965 partii per Amsterdam. Nel caso mi fossi trattenuto lì, Laura sarebbe venuta alcuni giorni per Natale. Furono tutti molto carini con me. Il direttore del personale mi disse che se volevo restare in Olanda, potevo far venire anche mia moglie, perché alla Tv olandese cercavano del personale per i reparti tecnici. Restai due mesi, poi alla fine di novembre, tornai a Milano. Da Amsterdam avevo preso contatto con la Doxa che era interessata ad assumermi dal 1 gennaio del 1966.  Ero stato tentato dall’avventura olandese, ma non avevo avuto il coraggio di proporla a Laura. Sono certo che avrebbe accettato, perché aveva in me una fiducia illimitata. 

Ritornai invece alla mia prima passione professionale, le ricerche di mercato. Entrai in Doxa il 2 gennaio 1966. Lavoravo dunque in Doxa quando mi arrivò la telefonata di Laura da Laigueglia. Calcolai subito che l’evento sarebbe stato a cavallo fra la fine di ottobre e l’inizio di novembre. Appena rientrata a Novate prendemmo appuntamento con Beltramini per comunicargli la notizia ed avere gli opportuni consigli.  Ogni due mesi saremmo ritornati da lui per un controllo fino alla nascita che, secondo lui, era prevista per l’ultima settimana di ottobre. Era tutto a posto, la futura mamma era in perfette condizioni.

Decidemmo che Laura avrebbe partorito a Milano nella clinica Salus, vicino a piazzale Firenze, dove il reparto nascite era diretto da Beltramini. Mio padre andò in pensione nell’aprile del 1966.  Avevano trovato una casa in collina, nell’alta Brianza, a Ravellino, con un terreno di oltre 1000 metri quadri.

Il trasloco fu fatto in giugno e Laura trascorse due mesi della maternità, agosto e settembre, insieme a loro. Portò con sé la Lupa, che rimase per sempre a Ravellino.  Io mi trattenevo ogni fine settimana e li raggiungevo anche una o due sere, durante la settimana. Ai primi di ottobre Laura ritornò a Novate, mancavano ormai poche settimane al parto.

Ero al lavoro quando mi giunse la sua telefonata. Corsi a casa e arrivammo alla clinica Salus

all’inizio del pomeriggio. Restai in clinica tutta la notte, scrivendo un rapporto, mentre Laura era stata portata nella sala travaglio.  Ci vollero molte ore, fu certamente un parto doloroso, vista la scarsa elasticità dei tessuti. A quei tempi non era consentito al papà di stare in sala parto. Che emozione quando mi chiamarono e sentii il primo vagito. Era una femmina, avevamo già deciso il nome. Sarebbe stata Viviana, in omaggio alla grande attrice del cinema muto Viviane Romance, tanto amata da mia madre… e poi pareva figo chiamarla Vivi, abbreviativo che utilizziamo ancora oggi. Per le nozze avevamo fatto stampare un cartoncino con due sposi allampanati. Lo ripescammo completandolo con un bebè e la scritta ‘ E’ nata una bambolina’.  Dopo 3 giorni Laura ritornò con la ‘cittina’.

I primi tre mesi furono bellissimi. Laura era in maternità. Al venerdì sera salivamo a Ravellino per trascorrervi il fine settimana e, spesso, io rientravo al lavoro il lunedì mattina presto, mentre Laura si fermava a Ravellino tutta la settimana, per scendere poi con me a Novate Milanese la domenica sera. A gennaio bisognava risolvere il problema della baby sitter. Un amico segnalò a Laura una famiglia novatese che aveva un bambino di 6 mesi e che era disponibile a tenere la bambina, per un compenso sostenibile. Laura portava la Vivi alle 9 del mattino e la riprendeva alla fine del lavoro.  Il maltempo invernale da un lato e l’impossibilità di garantire sempre l’orario della sera, furono però difficili da gestire.

Laura mi disse che le capitava spesso al mattino di parlare con i vicini di casa, dato che i nostri balconi erano confinanti. Il marito lavorava in Comune a Milano e la moglie era casalinga con due figli, un maschio di 10 anni e una femmina di 5 anni. Aggiunse inoltre: “la signora Franca mi ha detto che in autunno, quando la bambina sarebbe andata a scuola, sperava di trovare un lavoretto “. Feci due più due e dissi a Laura: abbiamo qui alla porta accanto la soluzione al nostro problema, parlagliene quando la vedi e falle una proposta “.  Ma Laura non si sentiva di farlo, era troppo imbarazzata, per cui l’indomani sera bussai io alla porta della famiglia Restelli. Laura venne con la Vivi solo un quarto d’ora dopo, quando la chiamammo.  Io entrai e mi presentai. Dopo un breve prologo, rivolsi subito una domanda diretta: “Lavoriamo tutti e due a Milano, non sempre con orari fissi, per cui abbiamo affidato la cura della nostra bambina durante la giornata dal lunedì al venerdì a una famiglia novatese, che abita un po’ distante da qui. Le diamo un compenso mensile di Y lire, ma abbiamo qualche difficoltà nel rispettare gli orari alla sera. Mi sono permesso di venire a chiedervi se la signora Franca fosse disponibile ad accettare questo incarico “

Marito e moglie, Luigi e Franca, mi risposero insieme “Saremmo molto contenti”, pareva quasi che aspettassero una proposta del genere. Franca spiegò a Laura che Silvana, la bambina, stava quasi tutto il giorno a casa e l’avrebbe accolta come una sorellina. Luigi, che aveva evidentemente saputo che ero un consigliere comunale di maggioranza (PCI+PSI) mi disse che lui era socialista.

Insomma restammo lì un paio d’ore a chiacchierare e ci salutammo dandoci del tu. Avrebbe iniziato al più presto, previo accordo della famiglia incaricata attualmente. Il giorno dopo la Pasquetta 1967, il problema era risolto. Alle 9 Franca bussava per prendere in braccio Vivi, portarla di là dove stava fino a sera. Le demmo una copia delle chiavi di casa, per poter prendere ogni cosa potesse servire nel corso della giornata. Io stavo già dimenticando le promesse fatte a Laura un anno prima, di essere più presente in casa. Nel giro di un anno, all’inizio del 1968, mi ritrovai segretario della sezione Gramsci e l’anno successivo fui eletto segretario del Comitato cittadino del PCI.

Avevo il compito di coordinare e, in parte, dirigere il lavoro delle 3 sezioni di Novate Milanese, per un totale di circa 900 iscritti su una popolazione di 17.000 abitanti.

Alle elezioni amministrative del 1968 fui rieletto consigliere comunale e nominato assessore all’Urbanistica.

A novembre ci fu il Congresso Nazionale di Bologna. Insomma ero lanciato verso una ‘carriera politica’ sempre più impegnativa. Laura era sempre più rassegnata.

A Bologna il Congresso tenne la famosa sessione notturna in cui la segreteria del Partito, guidata da Longo, chiese formalmente ai compagni Pintor, Rossanda, Magri e Caprari, che avevano appena fondato il mensile il Manifesto, di fare il mea culpa o di uscire dal Partito. La durissima requisitoria, stile Vyshinsky, fu fatta da Giuliano Pajetta. I 4 imputati, cui si erano aggiunti Ninetta Zandigiacomi e Valentino Parlato, rifiutarono entrambe le soluzioni (mea culpa o andarsene). Alle 3 del mattino venne quindi messa ai voti una delibera di espulsione, da votare ovviamente a mano alzata.

Sui 1200 delegati di tutta Italia ci furono 4 voti contrari e 10 astenuti. Io fui tra questi: dissentivo dai fondatori del Manifesto, ma non accettavo l’aut aut, perciò mi astenni. Con grave disappunto di Vitali, capo della delegazione lombarda. Non compresi che, con quel voto, avevo compromesso la mia carriera politica. 

Deluso sul piano nazionale, mi buttai ancor più sul lavoro in Comune, con due iniziative importanti, che mi tennero impegnato per oltre un anno. Ma non è di questo che voglio parlare in queste pagine dedicate alla mia Laura.

Non avevo consapevolezza che eravamo alla vigilia di un periodo critico della nostra vita di coppia, prima a Lecco e poi a Milano. Ero troppo egocentrico. I miei problemi, al lavoro e col partito stavano prendendo il sopravvento. L’impegno dell’assessorato all’Urbanistica era notevole. Almeno due volte al mese ero in Comune anche il sabato per cui i nostri fine settimana in Brianza a Ravellino si ridussero a due al mese. Alla domenica mattina con Laura e Vivi, invece di andare in campagna, facevamo un giro per i rioni di Novate. Volevo conoscere in dettaglio l’intero territorio comunale.  Ero addirittura contento se al venerdì sera Laura mi diceva:” domani vado con Vivi a fare una gitarella con Silvia, la mia collega della RAI”. Con la famiglia Restelli Laura si trovava molto bene, alla sera si tratteneva a parlare con Franca, che le raccontava l’intera giornata.  Capitò anche che uscissero insieme al sabato. Claudio e Silvana erano diventati quasi due fratelli per Vivi. Se eravamo in casa, talvolta usciva da sola sul pianerottolo, suonava alla porta dei Restelli e si tratteneva da loro, finchè Laura non andava a chiamarla.

Arrivò la primavera del 1972.  Un venerdì sera, eravamo a tavola, quando io, rivolgendomi sia a Laura che a Vivi dissi:” Domani mattina andiamo sul lago di Como e, al ritorno, passiamo a salutare i nonni.”  Vivi ci guardò e mi rispose subito, con le testuali parole che mi sono rimaste impresse nella mente: “Domani non posso, vado  al parco con mamma Franca e papà Gino”.

Fu come un fulmine a ciel sereno, Laura ed io ci guardammo e restammo zitti.

Quando Vivi andò a letto, Laura andò dalla Franca e le spiegò che Vivi veniva con noi il giorno dopo e le chiese di dirlo lei stessa alla Vivi la mattina dopo. Quella sera discutemmo a lungo Laura e io sul da farsi.

In settembre Vivi sarebbe entrata in prima elementare. Che fare? Ne parlammo e riparlammo per tutto il fine settimana. Alla fine concludemmo che, prima dell’estate, bisognava andar via da Novate Milanese, per evitare situazioni difficili da gestire e per ripristinare un forte legame familiare. Io avevo perso la lucidità di analisi della situazione, Laura era scioccata dal timore di vedere indebolito il rapporto con Vivi.  Era disposta a qualsiasi sacrificio pur di recuperare un forte ed esclusivo ruolo materno. E io commisi due grossi errori.

I miei genitori erano affaticati dalla casa con terreno a Ravellino. La Lupa era morta da poco, all’età di 15 anni. Decisero di lasciare quella casa e di affittare un appartamentino a Lecco.

Se fossi stato più concentrato sui problemi della famiglia avrei proposto a Laura di subentrare noi nell’affitto della villa di Ravellino, che distava 35 km da Milano e 15 km da Lecco. Laura poteva chiedere in RAI un anno di aspettativa per motivi familiari e coltivare la sua passione per gli animali e l’orto, con Vivi che, in campagna, avrebbe presto dimenticato Novate Milanese.

Non feci nulla di tutto questo.  Proposi a Laura di cercare un appartamento a Lecco, in centro, non distante dalla stazione, in modo che mi fosse possibile andare a Milano, ogni giorno, in treno. Avevo accettato la direzione di un ufficio studi indipendente, per cui avevo un ufficio dirigenziale con un divano sul quale potevo anche dormire se dovevo trattenermi per le riunioni fino a sera tardi a Novate Milanese.

Dopo un mese avevamo già trovato un bellissimo appartamento a Lecco, in via Trieste, e decidemmo il trasloco per la fine del mese di giugno.

Spiegammo a Franca e Luigi Restelli che i miei genitori, a Lecco, avevano bisogno di avere un aiuto e dovevamo stare loro vicini.  Presi da questo terremoto familiare, non eravamo in grado di ragionare.

Laura si licenziò dopo 10 anni dalla RAI, senza chiedere l’aspettativa. Sognavamo il lago di Como, ramo di Lecco, e il Resegone, dove comprammo ai Piani d’Erna (1350 metri slm) un monolocale con servizi, per trascorrervi i fine settimana.

Laura incominciava una vita da casalinga ed io affrontavo la quotidianità del pendolare: due ore di viaggio al mattino e due alla sera.

 

2.2  I momenti più difficili

Trascorremmo l’estate 1972 a Lecco e fu un’estate bellissima. Laura amava molto il lago. Comprammo una barca a motore che tenevamo ad Abbadia Lariana, il primo paese risalendo il lago, in un’officina nautica gestita da un ex campione nazionale di motonautica. Telefonavamo al mattino presto e un’ora dopo, con la nostra Dyane decapottata, arrivavamo sul posto e trovavamo la barca già in acqua, pronta per partire. Con quella barca facemmo molte escursioni sul lago: a Bellano e poi fino all’abbazia di Piona, lungo la costa orientale, oppure, se la giornata era soleggiata e senza vento, fino a Bellagio, sull’altra sponda. Decidemmo di investire il gruzzoletto delle nostre due liquidazioni (dalla RAI e dalla Doxa) nell’acquisto di un monolocale ai piani d’Erna a 1370 metri, sotto le cime del Resegone. In 30 mq c’era tutto. Una mini cucina, un mini bagno, una mini camera da letto con due letti a castello e una sala con caminetto. Laura scelse personalmente gli arredi, tutti fatti su misura, in legno Cirmolo del Trentino. Due panche e un tavolo lungo 2 metri potevano accogliere fino a 12 persone. Quanti amici sono transitati in quegli anni ai Piani d’Erna! Si saliva con la funivia o, in alternativa, percorrendo in tre ore un sentiero di montagna che partiva dal piazzale della funivia, posto alla periferia di Lecco. Alla domenica mattina Laura andava all’arrivo della funivia ad accogliere gli amici invitati e li portava in cima al Resegone, al rifugio Azzoni, con una scarpinata di un paio d’ore. Io preparavo il pranzo. Alla sera scendevamo tutti con l’ultima funivia delle ore 22. In alternativa, se gli ospiti erano sportivi e ben allenati, si scendeva tutti a piedi fino al piazzale della funivia. Laura si conquistò il soprannome di “camoscio del Resegone”.

In agosto affittammo da amici una baita a Pianazzo, sulla strada dello Spluga, vicino a Madesimo e lasciammo il monolocale dei piani d’Erna ai miei genitori. Ricordo sempre che al ritorno mio padre mi disse,” bel, bel, ma no per mi. Go zà fatto abbastanza anni de confino”. Infatti scesero a Lecco solo una volta alla settimana in quel mese di agosto.

Nell’autunno 1972 combinai il primo ‘strappo’. Oltre a trascorrere un paio di sere alla settimana in Comune a Novate, mi capitò anche di perdere la testa per una donna molto affascinante, V. K, triestina di origine slava, che collaborava con il nostro ufficio studi. Mi capitò così di passare qualche notte a Milano, senza andare né a Novate, né a Lecco. Dal punto di vista sessuale sono sempre stato molto ‘sensibile’, al contrario di Laura. Laura aveva un concetto totalizzante della fedeltà, che non ammetteva trasgressioni. Anch’io predicavo la fedeltà in teoria, un po’ meno in pratica. Questa storia durò per circa un anno. Non so se Laura ne venne a conoscenza, probabilmente sì, ma non ne fece mai parola. Si trattava di una relazione fondata esclusivamente sul sesso, per cui non fu difficile per entrambi interromperla. Personalmente ero rattristato dall’aver ceduto a questa spinta erotica e mi ripromisi che non sarebbe più accaduto. Purtroppo non mantenni questa promessa

Ci sembrava di aver messo radici a Lecco.  Viviana aveva iniziato la prima elementare, si era fatta alcune amichette, sembrava aver superato lo shock dell’allontanamento da Novate Milanese e dalla famiglia Restelli. Io ero passato alla responsabilità di assessore al Bilancio, che mi impegnava meno dell’Urbanistica. Avevo un capo ufficio molto esperto, cui davo le direttive di intervento e lui preparava il tutto per le riunioni di Giunta. Bastava che arrivassi un’ora prima della riunione.  Svolgevo parte del lavoro a casa. Mi aveva stampato l’elenco di metà delle famiglie novatesi (circa 3.000 sul totale di 6.000).

Io ne esaminavo la composizione, i componenti che lavoravano, l’attività svolta e l’imponibile dichiarato. Spuntavo sull’elenco i nomi delle famiglie sulle quali ritenevo opportuno fare un accertamento. Laura mi dava una mano nel fare questa analisi certosina.

Nell’agosto del 1973 partimmo con mio padre, mia madre, Vivi e Laura per un viaggio in Francia e cedemmo il monolocale dei piani d’Erna alla famiglia Restelli, che vi trascorse l’intero mese. Luigi, Franca e i due ragazzi fecero una raccolta record di funghi.

Fu un viaggio bellissimo nelle Alpi francesi e svizzere. Visitammo due famosi allevamenti di cani San Bernardo, in Francia nel borgo di Les Rosières, appena passato il colle del Piccolo San Bernardo e al ritorno l’allevamento dei frati del Gran San Bernardo con il magnifico ostello. Fu in quelle occasioni che scattò probabilmente in Laura la passione per i cani San Bernardo.

I soci fondatori dell’ufficio studi che dirigevo, la RAI, la FIEG, la O.Ti.Pi e l’UPA, entrarono in conflitto fin dall’inizio del 1974, per cui l’attività dell’ufficio fu seriamente compromessa ed anche i finanziamenti divennero problematici. Mi misi quindi alla ricerca d un nuovo lavoro. Negli anni della Doxa avevo conosciuto Mario, socio e amministratore della Makrotest,  una società di ricerche di mercato. Non ci eravamo mai frequentati, ma ci stimavamo professionalmente. Mi offrì il posto di condirettore e accettai. Avrei iniziato il 1 settembre 1974. Gli uffici erano vicini alla Stazione Nord in piazzale Cadorna, ma da Lecco il treno portava solo in Centrale e, all’epoca, non c’era ancora la linea 2 della metropolitana.

Insieme a Laura decidemmo quindi di ritornare a Milano.

Trovammo casa in un palazzo di fine Ottocento in via Vincenzo Monti. Laura aveva adottato Fufi, un cagnolino trovatello. In agosto era arrivato nella baita di Pianazzo che avevamo affittato per il terzo anno. Appena alzata al mattino presto, Laura aveva trovato Fufi accucciato vicino alla porta. Si reggeva a stento zoppicando e con la schiena arcuata. Lo portammo dal veterinario che riscontrò la frattura di due vertebre, ormai consolidata. Aveva ricevuto una bastonata sulla schiena. Non c’era nulla da fare, ma poteva sopravvivere. Laura lo curò con tanto amore e poi mi disse che voleva portarlo con noi a Milano. Il proprietario dell’intero palazzo, che abitava all’ultimo piano, aveva un cane e fu contento di sapere che anche noi amavamo gli animali.  Laura confezionò una borsa per portarlo a tracolla al parco Sempione, dove lo liberava, lasciandolo saltellare sull’erba. Viviana fu iscritta alla terza elementare di via Ruffini, una scuola pubblica di bambini della buona borghesia milanese, fra i quali c’erano alcuni bambini della classe operaia, i figli dei portinai. Il mio nuovo ufficio era a duecento metri da casa. La ferrovia Nord, per raggiungere Novate Milanese in 15 minuti, era a trecento metri. Io avevo dunque tutte le comodità.  Purtroppo ancora una volta non avevo pensato a Laura.  Ritornata a Milano, sentiva la mancanza del lavoro in RAI. Essendosi licenziata, senza richiedere un’aspettativa, si era preclusa ogni possibilità di rientro. Nel fine settimana andavamo ai piani d’Erna nel nostro ‘buen retiro’, c’erano sempre degli amici, ma la settimana era lunga per lei. Vivi aveva fatto amicizia con Luigino, figlio della nostra portinaia, e passava volentieri parte del pomeriggio in portineria. In primavera Fufi morì e decidemmo di prendere un altro cane. Stavolta puntammo sulla grossa taglia. Al canile di Busto Arsizio c’era un San Bernardo che aspettava un padrone. La scintilla scoccata l’anno prima in Laura fu decisiva. Andammo a prendere Jimmy, aveva 6 o 7 anni. Si affezionò molto a Laura, che lo portava al parco Sempione. Nel fine settimana poi si scatenava sui prati dei piani d’Erna. Dopo appena un anno scoprimmo che aveva un tumore. Era sempre stanco e mangiava malvolentieri.

La diagnosi fu spietata. Morì due mesi dopo, prima dell’estate 1975. 

Ormai eravamo entrambi innamorati dei San Bernardo. Mi misi in contatto con un noto allevamento di Bagnara di Romagna e, in agosto, andammo a prendere Leo, un cucciolo di due mesi, appena svezzato. Io mi illudevo che Leo potesse riempire la vita quotidiana di Laura, della cui assenza di motivazioni, avevo la responsabilità, senza rendermene conto allora.

Viviana cresceva serena. Oltre a Luigino aveva molti amichetti e amichette della sua classe che venivano spesso a casa nostra e viceversa. Laura ed io eravamo uniti anche dalla passione politica. In quegli anni 1974-1975 il PCI aumentava costantemente la propria influenza, soprattutto fra i giovani e raccolse il 35% dei voti alle elezioni politiche europee di quell’anno. A scuola i compagni di Vivi facevano la prima comunione, con festa e regali, mentre Vivi non frequentava l’ora di religione e, quindi, non la fece. Laura acquistò un bellissimo orologio da polso, che Vivi desiderava da tempo. Fu il suo regalo, consegnato in piazza Duomo, durante il comizio di Enrico Berlinguer, lo “zio” venuto da Roma. La piazza era stracolma, con gran sorpresa di Vivi, anche se dovemmo dirle che… non tutti erano venuti per la consegna dell’orologio.

L’estate del 1977 fu ancora una stagione memorabile. Leo aveva 1 anno, era bellissimo, alto 70 cm al garrese. Vivi aveva 11 anni e stava entrando nell’età dell’adolescenza. Eravamo nuovamente a Chiesa Valmalenco in una villetta insieme ai miei genitori. In 3 settimane facemmo il tour dei 12 rifugi, tutti ad altezze variabili dai 1500 ai 2.400 metri. Li percorremmo Laura, io e Leo. Qualche volta venne con noi anche Vivi, che però non manifestava grande entusiasmo per questi ‘trekking’ di montagna. Partivamo alla mattina alle 8, pranzavamo nel rifugio di turno e scendevamo verso sera. Facemmo anche la traversata del passo del Muretto, antica via del commercio con la Svizzera, e scendemmo al Maloja. Poiché avevamo lasciato a casa Leo, ritornammo via Chiavenna, facendo l’autostop. Laura si divertiva molto in queste avventure, anche se mai avrebbe alzato lei il ditino per fermare le macchine di passaggio.

Nell’inverno 1977 la situazione si complicò un po’ per me. La società francese che possedeva la maggioranza delle quote della Makrotest rifiutò di fare alcuni investimenti che avevamo proposto per sviluppare le attività. Mi resi conto che le prospettive di crescita professionale ed economica erano pressochè nulle. Sul piano politico, dopo i successi degli anni 1975-1976, il PCI aveva offerto l’appoggio esterno al governo di Centro sinistra e Ingrao era stato eletto Presidente della Camera dei Deputati. Nel marzo 1978 poi con il rapimento dell’on. Moro sostenitore dell’apertura a sinistra, il PCI rimase in attesa e perse molti consensi, soprattutto tra i giovani. Le scelte politiche fatte a livello nazionale mi stavano deludendo. Mi convincevo sempre più che bisognava cambiare dal basso il modo di ragionare della gente, anche di coloro che si dichiaravano di sinistra.  Incominciai a pensare alla costituzione di una cooperativa di giovani nel settore delle ricerche di mercato e dei sondaggi dell’opinione pubblica. Ne parlai con alcuni ragazzi che avevano lavorato con me in Doxa e con alcuni giovani amici. Laura era un po’ perplessa, temeva una nuova avventura che presentava molti rischi per me, mentre lei era senza lavoro. Nei mesi di maggio e giugno, una volta alla settimana, ci riunivamo a casa nostra per parlare di questo progetto. Anche la figlia maggiore della nostra portinaia, Cristina, appena laureatasi in matematica e fisica, era della partita. C’era un grande entusiasmo in tutti. Avevamo concordato che la cooperativa sarebbe stata fondata in luglio, avremmo attrezzato gli uffici in agosto per avviare l’attività in settembre.

Un po’ alla volta anche Laura si convinse non so se da sola o se spinta dalla carica che vedeva in me. Vittorio Casati ruppe per primo gli indugi: si presentò una sera dicendo che aveva dato le dimissioni dalla Standa.

Eravamo 10 soci, di cui 5 uomini e 5 donne, 6 soci attivi e 4 non attivi. In un cortile signorile d via Maddalena, alle spalle di piazza Missori, trovammo degli uffici molto spaziosi, due grandi stanze ed una stanzetta in fondo. Collocammo la segreteria e l’ufficio intervistatori nella prima stanza più grande, all’ingresso, mentre nella seconda si insediò il piccolo gruppo di ricerca formato da due persone. Nell’ultima stanzetta ci stavo io. Avevamo così distribuito gli incarichi: il direttore, due ricercatori, due segretarie, una delle quali teneva anche la prima nota contabile e la responsabile ufficio intervistatori, coadiuvata dalla seconda segretaria. Dovevamo trovare qualcuno che si occupasse della pulizia di fondo prima dell’apertura dell’ufficio e poi per la manutenzione quotidiana, un paio d’ore al giorno. La nostra prima riunione nella sede di via Maddalena volgeva al termine, quando Laura che era rimasta in silenzio fino a quel momento si alzò e disse:” Mi occuperò io delle pulizie”.  Il tono era perentorio. Seduta stante fu pattuito un compenso di 200.000 lire nette da riscuotere mensilmente con nota spese.

Laura venne per 3 giorni di seguito a pulire pavimenti, vetri, scrivanie, armadi e quant’altro. Quando arrivammo noi l’ufficio era straordinariamente accogliente. Laura aveva provveduto ad acquistare alcuni oggettini, funzionali al lavoro e al decoro dell’ufficio, comprese alcune stampe e una grande carta geografica dell’Italia che serviva per spillare tutti i comuni in cui risiedeva almeno un intervistatore. Dovevamo trovare il nome della nuova società. Dopo una serie di discussioni, scegliemmo Abacus: era la prima in ordine alfabetico in tutti gli elenchi, dava l’idea di precisione del calcolo e di cura artigianale. Un amico pubblicitario creò il logo e partimmo subito con i primi contatti commerciali. Il nostro primo cliente fu Famiglia Cristiana, che ci affidò un’importante ricerca su un campione di 500 parroci. La direzione di Famiglia Cristiana decideva quante copie del settimanale inviare ad ogni parrocchia e non accettava rese. Le lamentele dei parroci, costretti a reclutare gratuitamente dei collaboratori per vendere tutte le copie, crescevano. Lo scopo della nostra indagine era quello di suggerire alla Direzione del settimanale delle iniziative volte a conquistare maggior disponibilità da parte dei parroci. Don Emilio Mammana, il direttore di Famiglia Cristiana, mi mandò a chiamare e mi disse: desidero darvi un aiuto in questo primo anno di avvio della vostra attività. Vi affiderò quindi alcuni lavori. Fin da oggi vorrei che lei, Visintini, fosse il mio consulente personale per le attività di marketing.  Ogni settimana, una o più volte, le telefonerò per sottoporle qualche quesito, (un documento da commentare o da scrivere, ecc), lei manderà una persona a ritirare la busta e me la restituirà con le sue osservazioni uno o due giorni dopo. Ogni mese mi invierà per questo una fattura di 600.000 lire.  Chi poteva fare il fattorino? Lo fece Laura con un aumento del compenso da 200.000 a 300.000 lire al mese.

Dopo pochi mesi Abacus aveva quasi raggiunto il pieno regime e procedemmo a due assunzioni. Un terzo assistente di ricerca ed una contabile, Manila, una ragioniera di Novate Milanese. Nell’estate del 1979 organizzammo la prima gita sociale di due giorni nelle Langhe, con visita allo stabilimento tipografico di Famiglia Cristiana ad Alba. Arrivammo al sabato mattina. Era da poco iniziata la stampa della copia che sarebbe stata venduta alla porta delle chiese, 8 giorni dopo, alla messa della domenica. Ne stampavano 1.400.000 copie in 3 turni per 4 giorni, dal sabato al martedì notte. Dal mercoledì al venerdì partiva la distribuzione in 12.000 parrocchie di tutta Italia.

Il giorno dopo il ritorno a casa, la mia segretaria Luisa portò a sua mamma, devotissima, il numero successivo della rivista che aveva acquistato in chiesa al mattino. Al lunedì in ufficio Luisa ci fece ridere a crepapelle, raccontandoci lo stupore della mamma nel prendere in mano, quasi tremante, questa copia: “E scesa una settimana prima…..  dal Paradiso ! E’ un miracolo!”.

A un anno dall’inizio dell’attività, di ritorno dalla nostra gita sociale, Manila, la contabile, mi spiegò che nella nostra azienda, oltre alla contabilità corrente, che riusciva a tenere da sola, c’era una contabilità aggiunta riguardante i circa 300 intervistatori, cui bisognava inviare, almeno ogni 2 mesi, una distinta con l’elenco delle spettanze e dei pagamenti. Ogni versamento veniva fatto in banca. 40 anni fa non esisteva Internet e nemmeno i pc erano presenti nelle aziende italiane. Ci voleva una persona per questo incarico. E aggiunse: “ Io l’ho già trovata. E’ Laura” Provai a dirle che Laura non si era mai occupata di contabilità e di contatti con le banche. “ Non ti preoccupare , ne abbiamo già parlato con Laura, anzi abbiamo già fatto qualche prova insieme, è molto precisa ed è perfettamente in grado di farlo bene. Anche gli altri sono d’accordo”. Di fatto la decisione era già presa, mi avevano scavalcato. Questo episodio è rivelatore della personalità di Laura. Era dotata di uno spirito di sacrificio assoluto, nulla per lei era impossibile. Di qualunque cosa si trattasse, se pensava rientrasse nelle sue capacità, si metteva all’opera subito e non mollava finchè non ne era giunta a capo. Non solo, ma se qualcuno era in difficoltà, lei era sempre pronta a dare un aiuto. In un anno si era conquistata affetto e solidarietà da parte di tutti. Assumeva questo incarico a metà tempo, mentre le due segretarie si proposero di condividere con lei il lavoro delle pulizie e del fattorino a fine giornata. Iniziò così la sua ‘carriera’ in Abacus che la portò, 5 anni dopo, alla nomina a responsabile della contabilità, con un inquadramento da impiegata di 1° categoria.

L’Abacus fece un salto di qualità, cambiando sede, da via Maddalena a via Caminadella, e raddoppiando il personale, con l’acquisizione del cliente Canale 5, rappresentato allora da Berlusconi in prima persona. Mi chiamò un sabato mattina della primavera 1980 e mi chiese di andare alla villa di Arcore, che aveva acquistato da poco dagli eredi del marchese Casati. Ci propose un contratto ‘faraonico’ di 12 mesi, durante i quali dovevamo essere sempre a disposizione per effettuare sondaggi telefonici lampo, per valutare l’ascolto e il gradimento dei programmi di Canale 5. Volle che andassi personalmente a presentare i risultati dei primi due sondaggi alla villa di Arcore, perché voleva capire tutti i meccanismi dei sondaggi. Nella villa Borletti in viale XX Settembre, la sua sede di rappresentanza a Milano, allestimmo una sala telefoni. Fu uno dei primi call center a Milano, con 12 linee. Villa Borletti distava 500 metri dalla nostra abitazione, per cui Laura assunse l’incarico di supervisore delle squadre di intervistatrici che facevano le interviste telefoniche dalle 17 alle 20 e dalle 20 alle 23. Alle 10 del mattino successivo passava dal nostro ufficio a ritirare i risultati della sera precedente un giovanotto, Paolo Romani, ora dirigente di Forza Italia. Dalle 7 alle 9 del mattino una squadra di 3 studenti elaborava i dati con un sistema di contabilità manuale che avevamo creato, utilizzando una sorta di foglio excel.  Eravamo in un’epoca in cui i computer da tavolo non avevano ancora sostituito i grandi calcolatori dei Centri di calcolo. E’ capitato più volte che mi chiamasse direttamente Silvio Berlusconi alle 8.30 per avere qualche anticipazione. Fu un periodo in cui pensavamo solo al lavoro. Io rassegnai le dimissioni da assessore al Bilancio e rimasi capogruppo consiliare, il che riduceva le mie presenze a Novate Milanese a sole 2 sere a settimana.

 Laura era diventata socia dipendente a tempo pieno, Al mattino faceva da assistente a Manila, al pomeriggio gestiva il flusso delle intervistatrici a Villa Borletti.

Laura era orgogliosa del suo lavoro, ma anche gelosa. Se c’era qualche difficoltà, non si confidava con me, forse aveva timore di sminuirsi nei miei confronti. Ne parlava con Manila, come fosse una sorella.

In quel periodo di grande sviluppo della Abacus mi resi responsabile di un altro tradimento, che lasciò tracce indelebili nella nostra vita di coppia. Laura era tesa, provata dagli impegni di lavoro. Era diventata più dura, meno tollerante ai miei sbalzi di umore. In una ragazza della Abacus, separata dal marito, di cui non faccio il nome, trovai quel rifugio, quella dolcezza di cui sentivo il bisogno. Non avevo avuto il coraggio di affrontare il problema del nostro rapporto con Laura e, vigliaccamente, cercai altrove le coccole che mi mancavano. I miei erano andati in Liguria, a Finale Ligure, per un paio di mesi. Viviana aveva 15 anni. Le chiesi di venire con me a trovare i nonni, senza la mamma. Durante il viaggio, cercai di spiegarle in modo un po’ goffo che c’erano dei problemi nei rapporti fra me e la mamma e che, forse, dovevo allontanarmi per un po’. Non ricordo come reagì, era incredula e rattristata, anche se aveva certamente compreso che stava succedendo qualcosa di grave. Pochi giorni dopo il nostro ritorno a Milano, presi una valigia con alcuni cambi e me ne andai nell’appartamento dei miei a Novate Milanese. Il sabato successivo Vivi mi telefonò per dirmi che la mamma era andata via di casa e non sapeva dove fosse. Ritornai di corsa a casa e feci molte telefonate, a Trieste, a Novate Milanese, a Lecco per chiedere se Laura era arrivata. Di notte ebbi un chiaro presentimento. Alla domenica mattina telefonai alla funivia dei piani d’Erna e mi confermarono che Laura era arrivata venerdì sera. Partimmo subito con Viviana. Prima di mezzogiorno scendemmo dalla funivia e corremmo a casa. Laura era stesa sul letto, ad occhi aperti. Appena ci vide si alzò e ci buttammo nelle braccia l’uno dell’altra con Vivi in mezzo. In quel momento mi fu chiaro che avevo rischiato di dilapidare un patrimonio di affetti incomparabile. Per quanto difficile e doloroso bisognava ricucire lo strappo.

Nella primavera del 1983 Manila ci avvisò che ad agosto sarebbe andata in maternità. Non c’era da preoccuparsi perché Laura era in grado di sostituirla. Lei sarebbe venuta in ufficio una volta alla settimana, fino al parto. Non solo, mi chiese anche di cambiare attività al rientro, da contabile a ricercatrice di mercato. Dall’estate 1983 fu Laura la capo contabile della Abacus, con 2 giovani assistenti, entrambe diplomate. Nell’arco di 5 anni Laura passò da donna delle pulizie a capo contabile. Fu il capolavoro della sua vita professionale. Era tornata felice, non dipendeva più da me e, soprattutto, dalle mie decisioni, talvolta prese in modo affrettato e senza neppure consultarla.

Ma nell’estate 1983 accadde un altro evento molto importante per il nostro futuro familiare. Nel mese di marzo fui ricoverato per un mese all’ospedale San Carlo per una pleurite, abbinata a una broncopolmonite, che mi debilitò alquanto per i 2-3 mesi successivi.  I medici mi vietarono di frequentare i Piani d’Erna. Dovevamo trovare un altro rifugio possibilmente in collina e in una zona secca, lontana dai laghi. Un amico di Roma ci propose di occupare, per il mese di agosto la sua casa di Monte Laterone, un borgo medioevale, in provincia di Grosseto, sulla strada che dal monte Amiata porta al mare. Fu così che scoprimmo la Toscana meridionale e, in particolare, i principali borghi e cittadine del Sud della provincia di Siena, la Val d’Orcia, Montepulciano e Pienza, Radicofani, Chianciano e… Sarteano. Per Laura fu un colpo di fulmine.

Decidemmo di vendere il locale dei Piani d’Erna e di acquistare una porzione di casale a Fonterenza, in comune di Sarteano, sulle pendici del monte Cetona, per trascorrervi i periodi di vacanza. Per i fine settimana affittammo un appartamento fra Introbio e Pasturo, in Valsassina, la valle dei formaggi. Conoscevamo già Lecco e la Valsassina. Sarteano e Pasturo sono i 2 comuni che segneranno profondamente la nostra vita, mia e di Laura e di nostra figlia Viviana. 

Abacus era diventata in pochi anni una delle aziende leader del settore. Alla Legacoop Lombardia non capivano bene di cosa ci occupassimo.  Ci iscrissero nella sezione “servizi alle aziende”. In realtà la maggior parte delle coop di questo settore erano imprese di pulizia, di impianti elettrici, di manutenzione.  Il settore dell’informatica stava nascendo. Fummo presto trasferiti al settore della produzione e lavoro. Anche il nostro mestiere stava cambiando. Non era più possibile aprire un nuovo ufficio senza fare investimenti importanti, un call center per le interviste telefoniche e un centro di calcolo, oltre ai notebook personali, da tavolo, che iniziavano appena a circolare in Italia.

Dovevamo cambiare ancora sede. Un nostro cliente importante, la concessionaria Manzoni e C. ci offerse in affitto una villetta in via Villoresi, su due piani, con 18 locali. Decidemmo di cercare dei soci per creare un moderno call center computerizzato con 60 linee. Nel 1985 fu fondata la Sintel, sempre in via Villoresi, in cui eravamo 3 soci, con la responsabilità della gestione delegata alla Abacus. L’anno dopo nasceva la Banca Dati Consumi, una spa di cui erano soci la Abacus, la Makrotest e la Coop Emilia Romagna nella persona di Giovanni Consorte. Eravamo diventati una delle 5 più importanti strutture nel settore delle ricerche di mercato e dei sondaggi d’opinione.

Manila ritornò in ufficio dopo la maternità e divenne assistente di ricerca. Ogni tanto scendeva a far visita alla sua allieva Laura che, con la guida del nostro consulente Leoncavallo, faceva fronte con grande coraggio e sacrificio alle innovazioni tecnologiche. Fu così che imparò, prima di me, a usare il computer. A me misero sul tavolo un notebook, dicendomi che un direttore d’azienda non poteva ricevere i clienti senza avere un pc sul tavolo. Imparerò ad usarlo solo negli anni Novanta. Fino ad allora scrivevo tutto a matita, per poter cancellare, e passavo le minute in segreteria.

Nel febbraio 1982 avevamo fondato una nuova società, Abacam, in società al 50% con la società francese CAM di Antoine Minkowsky. Entravamo così nel mercato delle ricerche farmaceutiche. A dirigere Abacam andò Vittorio Casati, che era stato il primo vicepresidente in Abacus,  ed era il marito della mia segretaria Luisa. Nel 1984 entrò in Abacus un giovane bergamasco, laureato da poco, Nando Pagnoncelli, che farà una brillante carriera, diventando in pochi anni uno degli esponenti di spicco del nostro settore. Arrivò anche Donatella Merano, psicologa,fondando la divisione ricerche motivazionali.

Ma ritorniamo a Laura. Leo era morto dopo l’ennesimo attacco di epilessia, nell’autunno del 1983. Un paio d’anni prima mentre eravamo a passeggio nel parco Sempione, Leo vide un cane dall’altro lato della strada e con uno strattone si liberò del guinzaglio e attraversò la strada correndo. Proprio in quel momento sopraggiungeva una macchina e Leo la urtò sulla fiancata con la testa. Scomparve di corsa. Lo ritrovammo due ore dopo rannicchiato ai piedi di un albero, dall’altra parte del parco. Perdeva un filo di sangue dall’orecchio. La mattina dopo andammo dal veterinario, che non riscontrò lesioni evidenti. Alla clinica veterinaria di Città studi, fu sottoposto ad una TAC. Era appena percepibile un grumo di sangue nel cervello. Ci dissero che era un’operazione molto complicata, dall’esito incerto. Poteva vivere parecchi anni, però sarebbe stato potenzialmente soggetto ad attacchi epilettici, che si verificarono un anno dopo.

La frequenza degli attacchi divenne ravvicinata, finchè il cuore non resse più e dopo l’ennesimo attacco morì d’infarto. Per Laura fu una perdita terribile. Si rimproverava che il guinzaglio le fosse scappato di mano quella sera. Inutilmente cercavo di dirle che non l’avrei trattenuto neppure io, tanta era la forza di Leo.

Avevamo superato la crisi di coppia, la ferita era rimarginata, ma restavano le cicatrici. Avevo perso buona parte dell’autorevolezza che mi aveva sempre riconosciuto. Non contestava le mie proposte, ma mi faceva capire se era d’accordo oppure no, ed io imparai un po’ alla volta a tenerne conto. I miei genitori trascorsero l’estate del 1984 a Introbio in Valsassina. Questo vecchio centro della Valsassina, sede storica della Cademartori, ci piacque. Conoscemmo Rocco Negri, ex maresciallo dei Carabinieri. Andato in pensione a meno di 50 anni, grazie alle pensioni baby, aveva aperto fra Introbio e Pasturo un piccolo centro ippico, dove teneva a pensione una decina di cavalli e organizzava nei fine settimana delle passeggiate a cavallo. Laura volle provare. Nonostante la lunga inattività, aveva mantenuto l’agilità dell’ostacolista e furono sufficienti un paio di lezioni per ‘essere a cavallo’ e affrontare le passeggiate. Di fronte all’entusiasmo della mamma anche Viviana, che ci seguiva di rado in queste fughe da Milano, si incuriosì. Si vede che era predestinata a subire l’influenza del cavallo, essendo nata nel 1966, l’anno del cavallo secondo lo zodiaco cinese.

Nel giro di un anno comprammo due cavalli, Argento per Laura e Lucky per Viviana. Argento, in seguito sir Argy, era un cavallo sauro, di circa 14 anni, addestrato sia per la monta inglese che per la monta americana. Lucky era un baio più scuro di circa 6 anni. Non essendo cavalli di razza e, quindi, privi di documenti, l’età era approssimativa, stimata dal veterinario soprattutto dallo stato della dentatura. Avevo in casa due amazzoni. Al sabato pomeriggio e alla domenica mattina andavano a cavalcare nel recinto e poi in passeggiata con Rocco ed altri cavalieri della Vasassina e di Milano. La colonna, guidata da Rocco, oltrepassava il torrente Pioverna dietro allo stabilimento Cademartori e proseguiva fino a Primaluna. L’altro percorso risaliva il costone della collina e, attraverso il bosco, raggiungeva Barzio il centro di villeggiatura più noto della Valsassina. Fra il gruppo di 10 cavalieri, tutti proprietari di un cavallo, c’era l’imprenditore edile Agostoni di Pasturo.

In quegli anni 1985-1986 accaddero due eventi che coinvolsero la nostra famiglia. La sorella di Laura, Dinorah aveva una figlia Sabrina, che, dopo l’allontanamento del papà e la conseguente separazione, si era innamorata di un giovane, poco affidabile e coinvolto in traffici illegali, e voleva andare a stare con lui. Dinorah, disperata, telefonò a Laura, chiedendole aiuto. In pratica si trattava di ospitare per alcuni mesi Sabrina a Milano. Laura mi consultò e decidemmo di accogliere Sabrina, ma ci scordammo di chiedere il parere di Viviana, anche perché avrebbe dovuto condividere la sua stanza con la cugina. La permanenza di Sabrina a Milano fu breve e tumultuosa. Dopo 2 mesi scappò, tornandosene a Trieste. L’anno dopo Laura ed io trascorremmo il Natale a Parigi, dai nostri amici Ranger. Il figlio Bruno, laureato al Politecnico, di ritorno dal servizio civile in Arabia Saudita, era entrato in depressione. Da due mesi non usciva di casa e i genitori erano seriamente preoccupati. Laura ed io proponemmo loro di farlo venire a Milano, avrebbe avuto un lavoro al Centro di calcolo dell’Abacus. Il cambio di ambiente e di vita, ebbe un effetto shock, cui Bruno reagì positivamente. Ritornando a Milano con Bruno, avemmo la netta sensazione che Viviana, oltre ad essere sorpresa, fosse anche un po’ perplessa di fronte a questo nuovo allargamento della famiglia. 

Bruno aveva una stanza nell’appartamento di Luigi, il figlio della portinaia, ma mangiava con noi, andava in Abacus con noi, e veniva con noi anche ad Introbio nel fine settimana. 

 Nel 1987 Agostoni propose a tutti i cavalieri di acquistare una fattoria abbandonata, nel territorio del Comune di Barzio, il Prà Buscante. La cascina aveva un appartamento ancora abitabile, 24 stalle e un terreno circostante di circa 6 ettari, compreso un recinto di 15 metri di diametro, con il fondo in terra battuta, già adatto a far girare i cavalli.

Ciascuno di noi investì 75 milioni di lire per l’acquisto della proprietà e per costituire una riserva di liquidità. I cavalli a pensione furono subito i nostri dieci, cui nell’arco di un anno si aggiunsero altri cinque di proprietà del Pra’ Buscante per le passeggiate. Affidammo la gestione a un ragazzo del luogo. Ma c’era qualcuno che già covava un altro progetto. Viviana aveva compiuto 22 anni e frequentava la facoltà di architettura, ma senza troppo entusiasmo. Alla seconda riunione dei soci, votò a favore dell’affidamento in gestione per un anno, ma chiese che, trascorso l’anno, venisse presa in considerazione la sua candidatura. La questione non fu approfondita. Rientrati a Milano Laura ed io ne parlammo con Viviana. Nella nostra famiglia non c’era l’abitudine di discutere le scelte dei singoli componenti. Vigeva solo il limite dell’età, bisognava avere 14 anni. Così era stato anche per me 30 anni prima. Al compimento dei 14 anni Viviana aveva avuto le chiavi del portone ed era stata dispensata dai week end ai piani d’Erna. Restava da sola in via Vincenzo Monti, libera di andare dalle sue amiche o in portineria con Luigino. Rinunciavamo ad ogni potere di veto sulla sua decisione, ma volevamo capirne meglio le ragioni. Lo studio non la appassionava, voleva essere indipendente e il Centro ippico le appariva come un’occasione da non perdere. Forse, inconsapevolmente, questo desiderio di indipendenza fu alimentato dalla nostra vocazione ad allargare la famiglia, senza tener troppo in conto le sue esigenze. Si iscrisse perciò ad un corso di equitazione per ottenere il patentino, necessario per guidare le passeggiate a cavallo. Dopo 6 mesi era pronta e si trasferì al Pra’ Buscante per affiancare il gestore, in attesa di sostituirlo.

Gli altri soci avevano imparato a conoscere la sua determinazione. Nella primavera del 1990, Viviana si installò al Prà Buscante, nell’appartamento della vecchia cascina. Laura non aveva condiviso la mia neutralità di fronte alla scelta di Viviana. In cuor suo, senza mai dirglielo espressamente, avrebbe desiderato che terminasse gli studi di architettura, avendo già sostenuto 17 esami. Per gestire il Centro ippico Viviana si avvalse solo di un contadino del posto che veniva , ogni mattina, a pulire le stalle. Il numero dei cavalli era salito prima a 20 e poi a 24, di cui 10 di proprietà del Pra’ Buscante.  Viviana muoveva ogni giorno i cavalli nel recinto, provvedeva a tutte le loro necessità, ai controlli veterinari, ai rifornimenti, alla promozione del Centro ippico, all’organizzazione delle passeggiate nel fine settimana e a tenere la prima nota delle entrate e delle uscite. Oltre a farsi da mangiare e a curare la manutenzione della cascina. Nel fine settimana, quando le passeggiate erano numerose, veniva un giovane allevatore di Pasturo, Dino. Per ogni passeggiata bisognava infatti preparare i cavalli, strigliarli, sellarli e metter loro il morso.

In quei 2 anni, dal 1990 al 1992, Viviana dimostrò una grinta e una capacità di lavoro e di iniziativa che stupirono tutti, Laura e me compresi. Anche Laura si convinse che la sua Vivi si era trasformata, da figlia unica di città stava diventando una giovane imprenditrice.

Nell’autunno 1988 morì mia madre, Lidia. Fu una grossa perdita per Laura. C’è un’immagine che ho impressa in mente. Fu al termine della breve commemorazione al cimitero di Novate Milanese in ricordo di Lidia Tlustos, profuga del fascismo e staffetta della resistenza in Francia.

 Il vice sindaco aveva portato il saluto del Comune e la bara era appena stata fatta scendere dal furgone funerario per essere avviata alla tumulazione nel colombario, quando Laura si buttò a terra ad abbracciarla, singhiozzando. E si ribellò con un grido straziante contro chi voleva alzarla Questa era Laura, si lasciava trasportare dalla forza dei sentimenti del momento.

Io ho sempre amato avere degli amici con cui trascorrere i fine settimana ai piani d’Erna oppure qualche serata in casa nostra o loro. Laura invece, è sempre stata riluttante a instaurare nuovi rapporti. Avevamo concordato che, dopo un primo invito, lei mi avrebbe detto se la persona o la coppia appena conosciute potevano entrare a far parte delle nostre frequentazioni. In caso contrario mi diceva il giorno dopo: “ nol  me piasi ( oppure no la me piasi, o noi me piasi), magari la prossima volta te va ti de lori”. Io avevo fatto il primo invito e spettava a me il compito di scansare ulteriori incontri.  Un giorno mi disse chiaro e tondo: “no te digo de farlo perché mi no gò coraggio, xè solo per no farte far brutta figura”. Col tempo affinai la mia capacità di comprensione dei tratti caratteriali che non gradiva (chiacchierone, estroverso, un po’ volgare, esibizionista, ecc). Più la persona era riservata e più le piaceva. In questi casi era capace di tali attenzioni e di tanto affetto da lasciare stupiti i nuovi amici, contribuendo così a stabilire legami fortissimi che resistevano al tempo. Ho conosciuto i miei migliori amici ed amiche in quegli anni di vita a Milano e a Novate Milanese. Parte di questo prezioso patrimonio umano è merito di Laura. A questa regola fece una sola eccezione.  Dopo due anni di ‘anticamera’ ammise alla ristretta cerchia delle amicizie, Enrico Robbiati, chiacchierone, estroverso, un po’ volgare ed esibizionista, ma tanto schietto e generoso, due delle grandi qualità di Laura.

Nel 1987 l’Abacus aveva 30 soci dipendenti, e altri 15 dipendenti nelle società del ‘gruppo’ la Sintel srl, la Banca Dati Consumi spa, l’Abacam srl, con un giro d’affari consolidato che raggiungeva i 10 miliardi di lire. Eravamo cresciuti molto, forse troppo. Lo sottolineo qui, perché tutte queste nuove iniziative, pur finanziate in parte dalle riserve accumulate negli anni precedenti, ci esponevano a rischi maggiori, senza disporre di un gruppo dirigente capace di suddividersi le responsabilità e, di conseguenza, gli impegni straordinari che ne conseguivano.  La sola società che non ci dava nessuna preoccupazione era l’Abacam, guidata da Vittorio. Con il supporto di Antoine si era conquistata una quota significativa del mercato delle ricerche farmaceutiche. In Abacus assumemmo altri due dirigenti, ma, in breve si dimostrarono inadeguati.

 Ho sottolineato questo passaggio della vita della Abacus, perché Laura non era d’accordo con me. Avrebbe preferito rallentare la corsa allo sviluppo. Poi mi diceva: te lo digo a ti e no ai altri; mi no rivo a capir tutto quel che stemo fazendo, ma me par un poco troppo”. Col senno di poi penso che avrebbe fatto bene a dirlo a tutti in qualche nostra riunione. Ma Laura, nonostante i periodi bui che avevamo superato, mi voleva troppo bene per rivolgermi una critica in pubblico, anche limitata ai soli soci della Abacus. Temeva di sminuire la mia autorevolezza.

E successero due fatti traumatici per la Abacus. Giustino Cortiana, giovane pubblicitario milanese, che avevo conosciuto alla fine degli anni sessanta, era poi scomparso misteriosamente nel 1975. Un amico mi telefonò nel gennaio 1985. Dopo 6 anni di carcere, avevano liberato Giustino, arrestato nel 1977 in quanto fiancheggiatore delle Brigate Rosse. Non era un pentito, si era soltanto dissociato. Era un sognatore, una persona dolcissima, che non aveva mai impugnato un’arma.  Si trovava in grave difficoltà e mi mandava a chiedere se c’era qualche possibilità di lavoro part time in Abacus.

Convocai una riunione di tutti i soci. Ne avevo parlato con Laura che sostenne a spada tratta la sua candidatura. Raccolse la maggioranza dei voti in assemblea. Ben presto circolò la voce che avevamo dato lavoro a Giustino. La Abacus fu estromessa da una grande commessa

Seppi poi che i committenti avevano preso questa decisione su richiesta di uno di loro, da sempre schierato con l’estrema destra. Perdemmo dall’oggi al domani quasi il 20% del nostro fatturato annuo. Laura ne risentì, con un profondo senso di colpa, anche se il responsabile principale ero io.

In quegli anni nasceva l’Auditel, la misurazione elettronica dell’ascolto dei programmi e delle reti televisive. L’Abacus aveva stretto un rapporto di collaborazione con la TV svizzera, dove l’ing Steinmann aveva brevettato un apparecchio rilevatore di nuova generazione, installato nel televisore delle famiglie reclutate. Fu indetta una gara d’appalto. Per competere con le multinazionali Nielsen e AGB, costruimmo una cordata italiana composta da Abacus, Doxa e Makrotest.

La RAI era nostra cliente ed anche la Fininvest. Berlusconi ci ricevette a villa Borletti: Brusati della Doxa, Mario della Makrotest ed io. Ci propose di finanziare l’acquisto di 50 apparecchi da inserire in altrettante famiglie milanesi per dimostrare a tutti i committenti della costituenda Auditel, i punti di forza della nostra tecnologia. A noi competevano i costi di esercizio. Si trattava di investire circa 200 milioni di lire. Mario ed io eravamo d’accordo, ma la Doxa si defilò. Berlusconi allora ci congedò dicendo che dovevamo avere più ‘ spirito imprenditoriale’.

La lobby e l’esperienza acquisita in campo internazionale, oltre alla solidità finanziaria consentirono alla AGB inglese di vincere la gara. Io avevo organizzato, in vista della gara, un viaggio a Berna con 10 esponenti della RAI, della Fininvest e delle organizzazioni del mondo pubblicitario per dimostrare la validità della nostra tecnologia. Ma non bastò. Era stata la battaglia di Davide contro Golia, ma stavolta vinse Golia. Per le finanze della Abacus fu un costo secco. Una maggior prudenza da parte mia sarebbe stata auspicabile.

Io ero molto stanco. Non avevo un braccio destro in Abacus, dove pur c’erano già alcuni ottimi responsabili di ricerca (Luisa Anganuzzi, Luca Comodo, Manila Masetti, Nando Pagnoncelli). In Banca Dati Consumi c’era Mario Giovannini e in Sintel, l’ing Rampi, entrambi ex Nielsen. Dopo queste due sconfitte, persi anche la fiducia in me stesso.

Laura era un po’ sconcertata dai miei cambiamenti di umore. In cuor suo desiderava una vita più tranquilla.  Alcune multinazionali francesi ed americane avevano preso contatto con noi per costituire la loro filiale italiana. Alla fine del 1989 ricevemmo due offerte, Scegliemmo la Sofres, il cui Presidente, Pierre Weil, era stato mio compagno d’Università a Parigi. Io mi impegnai a restare per almeno due anni. Eravamo una cooperativa della Lega, non potevamo essere comprati. Scegliemmo la strada della cessione del marchio, dell’avviamento commerciale e di tutti i beni mobili. Il ricavato di 1.500 milioni di lire, fu suddiviso per il 33% tra i 30 soci della Abacus (ciascuno di noi ricevette 17 milioni di lire) e per il 67% fu costituito come fondo di riserva della nuova cooperativa Koinè di servizi sociali che nasceva per iniziativa di 3 socie della Abacus.

Fu allora che feci l’ennesimo torto alla mia Laura. Piuttosto che restare a fare la contabile alle dipendenze della capoufficio selezionata dalla nuova proprietà, Laura avrebbe probabilmente preferito aggregarsi al gruppo di socie della Koiné (Manila, Luisa e Cristina). Oggi la Koinè è una delle più importanti cooperative sociali della Legacoop a livello nazionale, con oltre 150 soci attivi nel settore dell’assistenza all’infanzia.

Nel gennaio 1991 Pierre Weil mi chiese chi poteva essere il mio successore alla direzionee dell’Abacus e io indicai senza esitazioni Nando Pagnoncelli, che aveva allora 32 anni.

Nel 1992 si concluse la nostra esperienza in Abacus. Laura presentò le sue dimissioni ed io non rinnovai il mio contratto di collaborazione. Viviana aveva lasciato il Pra’ Buscante e viveva con Dino in una casetta di Pasturo. Nel giugno 1992 era nata Greta Lidia. 

A me avevano offerto un buon contratto di consulenza a Roma dal gennaio 1993. 

Dalla stazione di Chiusi- Chianciano Terme, 15 km da Sarteano, potevo raggiungere Roma Termini in un’ora. La mia presenza in sede a Roma era richiesta solo 3 o 4 giorni a settimana. C’erano quindi tutte le condizioni per spostare la nostra residenza a Sarteano e dare inizio a una nuova vita. Mancavano solo 3 anni alla pensione per Laura, per me ne occorrevano cinque.

Fu così che decidemmo di trasferirci in Toscana

 

3. In Toscana

 

3.1  Sulle pendici del Cetona

Sarteano è un centro di 5.000 abitanti (500  slm), situato ai piedi del monte Cetona, su un altopiano a cavallo fra la Valdichiana e la Val d’Orcia. Fonterenza è uno dei tanti borghi sorti nei secoli trascorsi sulle pendici del monte Cetona (1170 m slm).

Alcuni di questi borghi fanno parte del Comune di Cetona, altri di San Casciano dei Bagni, mentre Casa Bebi, Fonterenza e Fonte Vetriana (tutti e tre a circa 750  slm) appartengono al Comune di Sarteano e guardano la Val d’Orcia.  Ho fatto una piccola ricerca su questi borghi. Nel 1950 vi risiedevano circa 1000 abitanti, nel 2010 ne erano rimasti solo 35 e, oggi, nel 2018 sono 20, una piccola minoranza rispetto ai circa 100 neo residenti, provenienti da Roma e da altre città d’Italia, che hanno scelto questi borghi negli ultimi 30 anni.

Io incominciai i miei viaggi quotidiani a Roma dopo il 6 gennaio 1993. 

Nelle due settimane precedenti ci installammo, avviando i primi lavori di manutenzione della casa. Due anni prima, avendo in previsione di venire ad abitare qui, avevamo comprato una seconda porzione del grande casale di Fonterenza, confinante con la nostra. Unimmo i due appartamenti tramite due porte comunicanti al piano rialzato e al primo piano. Due operai impiegarono 3 giorni di lavoro per aprire queste porte nei muri in pietra dello spessore di 90 cm. Poi mettemmo l’impianto elettrico a norma, con canaline che, dalla centralina, raggiungevano le 7 stanze e i 3 bagni dell’abitazione. Trasformammo la grande cucina con caminetto del secondo appartamento in sala cinema, con proiettore e schermo fisso a muro.  Volevamo goderci il cinema sul grande schermo e anche gli eventi sportivi trasmessi dalla televisione. Durante le lunghe serate invernali, Laura accendeva il fuoco nel grande camino e guardavamo un film in cassetta noleggiato a Chiusi.

Laura trovava ogni giorno mille cose da fare. In un paese di montagna, sopra Pontassieve, avevo scoperto un piccolo allevamento di cani San Bernardo. Mi misi in contatto e prenotammo un cucciolo di una cucciolata che nasceva due mesi dopo. In aprile andammo a Rufina a prendere Lea, una cucciolona di 3 mesi. Divenne ben presto la mascotte di Fonterenza.

Accanto a noi abitavano due famiglie. La prima era composta da una coppia di pensionati, Aggravi Orlando, detto Fanfani, e sua moglie. La seconda era composta da due anziani, Primo Aggravi, il castrino e Assunta e due giovani, Danio Aggravi e Carla. Gli altri 3 appartamenti, sul fianco e sul retro erano vuoti. Tutti gli anziani di Sarteano hanno un soprannome. Primo era il castrino, perché da 2 generazioni, andavano in giro a castrare i maiali.  Laura fece presto amicizia con Primo e Assunta che, insieme al figlio Danio, avevano l’azienda agricola, con terreni coltivati a cereali, sparsi nei dintorni e con mucche, pecore e maiali, oltre agli animali da cortile. Erano tutti cacciatori, ma rispettosi delle leggi non scritte. La caccia al cinghiale era la più diffusa. Non sparavano mai a femmine gravide o con i cuccioli.

Almeno una volta alla settimana ci volevano a cena con loro, per far veglia. Laura parlava con Assunta e poi mi diceva: ‘ pensa ,  noi gà l’acqua corrente in casa, ghe toca andar a ciorla alla fontana. E neanche el gabinetto. E neanche el riscaldamento, sora nelle camere fa tanto freddo. E la television xè vecia in bianco e nero, ecc ‘.

Toccava a me quando andavamo da loro introdurre il discorso: “ Senti Primo” dicevo “ Con tutto il lavoro che fanno le donne bisogna far arrivare l’acqua in casa e installare un gabinetto. E poi la sera successiva ancora “ All’infuori di questa grande cucina fa molto freddo in casa nelle stanze. Dato che accendete il camino tutto il giorno, fai installare un tubo che porti un po’ di caldo nelle stanze di sopra”. Primo brontolava obiettando che ci volevano tanti soldi, ma io lo zittivo così: “ E quanto hai speso tu per comprare il mese scorso questo fucile nuovo? E Primo rideva. Fu così che Laura si fece interprete delle rivendicazioni delle donne di Fonterenza, ottenendo in poco tempo i risultati voluti.

Io partivo al mattino alle 7 per prendere l’Intercity delle 7.50 che mi portava a Roma Termini alle ore 8.40 e, da lì, raggiungevo in 15 minuti a piedi l’ufficio in via Nazionale.

Fin dai primi giorni capii che non potevo fare il consulente di persone che usavano il pc, senza saperlo usare io stesso. Un giovane informatico di Chiusi mi fece un corso accelerato sull’uso di Word ed Excel. Ancora non si parlava di posta elettronica.

Caricavo su un dischetto il lavoro fatto durante la giornata e, a casa, lo trasferivo sul mio pc. Potevo così ripartire con il treno prima e finire il lavoro la sera. Laura aveva esplorato nelle prime settimane le varie strade sterrate, fra cui la vecchia strada che portava da casa nostra a San Casciano dei Bagni, con un percorso di circa 6 km e poco frequentata da autoveicoli. 

Quando arrivò Sir Argy le regalai due bisacce in pelle, da fissare sotto la sella. Alle porte di San Casciano dei Bagni c’è una vecchia cascina dove sono sistemati alcuni cavalli. Davanti c’è uno steccato. Laura scendeva da cavallo, attaccava sir Argy allo steccato, prendeva la borsa della spesa e andava in paese. Al ritorno riponeva le compere nelle 2 bisacce e risaliva a Fonterenza. Anche Primo aveva una cavalla, Andalù.  Capitava talvolta che partissero insieme per un giro nei boschi del monte Cetona. Queste passeggiate occupavano l’intera mattinata e la rendevano felice come non l’avevo mai vista.  Alla sera mi diceva: “ Bobo, ho sempre sognato questa vita.”

Si accontentava di poco: la casa era modesta, ma grande. Installammo anche una connessione Internet satellitare. Un po’ alla volta scoprivamo le infinite risorse della rete.

Nei fine settimana prendevamo la macchina e andavamo a visitare, le località dell’Umbria e della Toscana meridionale.

A cavallo delle province di Siena, Viterbo e Terni, c’è la riserva naturale del Rufeno, con un bellissimo agriturismo ‘la Monaldesca’, dove si trovano sempre dei cavalli per le passeggiate. 

Originariamente era una locanda di posta per il cambio dei cavalli di coloro che attraversavano l’Italia Centrale, dal Tirreno all’Adriatico. Ora viene ancora utilizzata da chi organizza dei trekking a cavallo di 2 o 3 giorni. Il gestore Adio, sembrava la controfigura di Pavarotti. Ci accoglieva al mattino con un largo sorriso.

Laura prendeva un cavallo per due ore e faceva una passeggiata nella riserva, io mi installavo all’aperto su un tavolone e scrivevo i miei report sul pc. Poi pranzavamo scoprendo ogni volta qualche ricetta contadina, ‘le patate strascicate’ oppure il ‘peposo’ o ancora ‘ la minestra di pane’, che Laura si faceva spiegare, per rifarle poi a casa. Rientravamo a sera, stanchi, ma soddisfatti della giornata.

Durante il primo anno della nostra permanenza a Fonterenza vennero a trovarci parecchi amici da Milano, fra cui la maggior parte degli ex della Abacus, che ci aggiornavano sulle novità introdotte dalla nuova proprietà.

Nando Pagnoncelli, da me segnalato come il potenziale nuovo direttore, aveva vinto le perplessità del Presidente, riguardanti la sua giovane età. Era stato confermato alla direzione della Abacus all’età di 32 anni.

Manila e Luisa avevano aperto gli uffici della Koinè, la cooperativa erede della Abacus.

 

Nel novembre 1993 partecipai a un Congresso di 3 giorni a Londra e Laura venne con me. Fu un viaggio bellissimo. Ci fermammo due giorni in più. Laura fu impressionata dalle rive del Tamigi, dalla London Tower con i gioielli della Corona e dalla cattedrale di Westminster. Visitammo l’osservatorio di Greenwich e il grande giardino botanico. E poi il mercatino di Portobello e i magazzini Harrod’s e, di sera, la zona di Soho con i locali caratteristici.  Salimmo sulla ruota gigantesca, cantando a squarciagola. Purtroppo faceva molto freddo, soffiava un vento gelido.

Ritornati a Fonterenza, il giorno dopo, sentivo un certo malessere, ma andai in ufficio a Roma. Al pomeriggio, durante il viaggio di ritorno, fui preso da una crisi respiratoria. Dovetti fermarmi un po’ alla stazione di Chiusi, prima di salire in macchina. Impiegai un’ora per arrivare a casa, stremato. Laura si spaventò.

Erano le 20  quando telefonò al dottor Betti, chiedendogli una visita urgente. Venne subito, mi visitò e disse : “ è polmonite, bisogna ricoverarlo all’ospedale. Chiamiamo l’ambulanza “. Laura non aveva più voluto rinnovare la patente di guida. Chiesi al dottore di curarmi a casa. Era perplesso, ma accettò, lasciandomi alcune medicine e prescrivendomene altre, con mille raccomandazioni a Laura sulla terapia da seguire.

Sarebbe salito la sera successiva con le altre medicine. Laura telefonò a Viviana, che lasciò Greta dalla nonna a Pasturo e arrivò in macchina due giorni dopo.

Rimase con noi per due settimane, accompagnandomi all’ospedale per fare le radiografie e scendendo in paese con Laura per le spese.

Laura e Viviana mi curarono amorevolmente. Il dottor Betti venne più volte a controllare il decorso della malattia e diventammo amici, dandoci del tu. Avevo superato una prova difficile, ma dovevo stare attento nei miei viaggi quotidiani a Roma.

L’attesa del treno al binario 4 alle 7,30 del mattino era una minaccia costante per il mio apparato respirato

 

3.2 Tra Milano e Fonterenza

Un gruppo di giovani amici avevano aperto nel 1984 una società di ricerche di mercato a Trieste, la SWG, che si era specializzata nelle interviste telefoniche. Nella seconda metà degli anni Ottanta erano venuti a trovarmi a Milano ed avevamo stabilito dei rapporti di collaborazione. All’inizio del 1994 aprirono una sede a Milano, in largo Richini, di fronte all’Università Statale. Avendo saputo che avevo lasciato la Abacus, mi invitarono per un incontro a Trieste. Partimmo insieme, Laura ed io.

La zia Giacomina era da tempo inferma, in una casa di riposo a Trieste e ,ogni due o tre mesi, Laura andava con il treno a trovarla. Poco dopo il nostro matrimonio la zia aveva ceduto la comproprietà della vecchia casa di Rozzol e noi avevamo contribuito all’acquisto di un appartamentino nuovo nello stesso rione. Aveva vissuto lì fino al ricovero in casa di riposo nel 1990. La zia aveva intestato a Laura la proprietà dell’appartamento. Avevamo perciò una nostra base per i viaggi a Trieste.

Accettai la proposta di dirigere l’ufficio di Milano della SWG . Accanto all’ufficio, sullo stesso pianerottolo, c’era un bilocale che affittarono per me.

Dal settembre 1994 ritornai dunque a Milano, mentre Laura restava a Fonterenza.

Tornavo in treno ogni venerdì sera e rientravo la domenica sera. Talvolta scendevo in macchina e ripartivo il lunedì mattina all’alba.

Un giovane collaboratore mi parlò per la prima volta della posta elettronica. Ci scambiavamo dei documenti con la sede di Trieste. Andavano e venivano più volte nell’arco di poche ore. Mi sembrò una rivoluzione rispetto al fax.

Avrei impiegato una giornata intera a faxare 50 pagine! E poi il testo arrivava direttamente sul computer da cui era partito poco prima, e si poteva modificare e rispedirlo subito. Questa tecnologia era destinata a cambiare la mia vita. Potevo fermarmi un giorno in più a Fonterenza, lavorare ed essere raggiunto in ogni momento dall’ufficio di Milano. La connessione era analogica sulla linea telefonica, ma per i documenti in word senza immagini era sufficiente.

Una volta al mese Laura ripartiva con me alla domenica sera e si fermava per l’intera settimana a Milano. Sir Argy e Lea restavano affidati alle cure dei nostri vicini.

A Milano, di sera, facevamo gli sposini. Prima al cinema, poi a cena in qualche ristorantino. A metà settimana Laura prendeva il treno per Lecco, dove trovava Viviana e salivano insieme a Pasturo, fino a sera, quando arrivavo io.

La settimana volava via fino al venerdì sera, quando si ritornava a Fonterenza. Stare da solo a Milano mi pesava meno, pensavo al fine settimana a Fonterenza e all’ultima settimana del mese, la nostra settimana a Milano.

Laura amava la vita a Fonterenza, ma era innamorata di Milano. Durante la giornata, mentre io stavo in ufficio, lei faceva lunghi giri attraverso i vari rioni di Milano, dai Navigli al Parco Sempione, dalla Stazione Centrale a Città Studi.

Largo Richini è a poche centinaia di metri da piazza Duomo. In queste scorribande scopriva qualche nuovo negozietto dove comprava prodotti che in Toscana non si trovavano. Le carrube per sir Argy, salsicce per cani per la Lea, qualche tè speciale per me, come il Lapsang Souchong, o una bottiglia di whisky torbato, come il Caolila. Alla sera, cenando a casa, era felice di mostrarmi questi prodotti e di sorprendermi. Era di nuovo la Laura che avevo conosciuto da ragazza, spensierata e sorridente,

 

C’era comunque qualcosa che la turbava e che non mi confidava. Lo capii un giorno, quando mi accennò a Viviana, che lasciato il Prà Buscante, trascorreva le giornate in casa, con la stufa accesa e la bambina di appena 2 anni. Non aveva amiche. In quanto convivente non sposata non frequentava la parrocchia, luogo di ritrovo delle donne.

Il compagno Dino, gran lavoratore, partiva al mattino alle 6 per andare con il babbo alla cascina in montagna dove avevano cavalli e mucche. Poi scendeva a fare la giornata da muratore, quindi, alle 17 risaliva in montagna a mungere le mucche e ritornava in paese con il babbo. A casa arrivava alle 20, stanco morto. Nel fine settimana si ritrovavano in famiglia con i genitori, fratelli e sorelle di Dino. Questa vita da reclusa aveva intristito Viviana e preoccupava Laura. Io non avevo prestato attenzione a questi cambiamenti e fu Laura a rendermene consapevole.

A Milano rividi un amico degli anni Sessanta, il professor Giampaolo Fabris, docente di psicologia all’Università IULM e Presidente della GPF&Associati, una società di ricerche ben quotata che aveva avuto notevole successo negli ultimi anni presso alcune fra le maggiori aziende italiane.  Giampaolo mi invitò più volte a casa sua e mi propose di lasciare la SWG, e di andare a dirigere la GPF, dove mancava, secondo lui, una guida di riferimento per i quattro ricercatori e sociologi, validi professionalmente, ma con scarsa esperienza di gestione aziendale. 

Mi chiese di incontrare, senza impegno, uno alla volta Luca Vercelloni, Martino Boffa, Liliana Segre e Paola Righetti, affinchè ci conoscessimo reciprocamente, prima di prendere una decisione. Lo feci nel maggio 1995.

A luglio partecipai ad un ritiro di 3 giorni all’Alpe di Siusi, dove ci ritrovammo con i 25 dipendenti dell’azienda e fui presentato come il nuovo direttore, dal settembre del 1996.

Il mio compenso raddoppiò, anche se dovetti comprarmi l’auto e pagare l’affitto dell’appartamentino che trovai in via Turro, una traversa di viale Monza, a pochi passi dalla stazione Pasteur della linea rossa della metropolitana. Da lì raggiungevo l’ufficio in corso Buenos Aires in poco più di un quarto d’ora. Per Laura non cambiava nulla, invece di stare in pieno Centro eravamo nella periferia Nord, ma direttamente collegata a piazza Duomo con la metropolitana. Continuava a venire a Milano una settimana al mese. Avevamo più soldi da spendere. Una sera la portai sotto i portici di piazza Duomo, nel negozio Missoni. In vetrina avevo visto il giorno prima un meraviglioso montgomery in tessuto misto cachemire, nei loro classici colori. Laura rimase a bocca aperta, non voleva nemmeno entrare. Insistetti, entrammo, lo provò e non lo tolse più fino a casa. Era elegantissima. Lo portò per 18 anni, fino alla fine. Ora l’ha Greta, come ricordo della nonna, e non disdegna di indossarlo ancora qualche volta.

Il nuovo lavoro comportava nuove responsabilità e dispendio di energie, ma allora ne avevo tante. La GPF&Associati si allargò, con la creazione di due altre società, la Telefield, un call center modernissimo, con un software canadese e la CFI&GPF, una società di studi di Customer Satisfaction, in società al 50% con la CFI di Ann Arbor nel Michigan. Per definire gli accordi con questa società feci 3 viaggi a Chicago e Laura mi accompagnò nel primo di questi. Furono due sole giornate, ma intense. A Detroit e Ann Arbor prima e poi a Chicago. Ci portarono dopo cena nel locale dove avevano esordito e suonato a lungo i Blue Brothers, la nostra passione. All’ingresso indossammo tutti un collo di camicia bianca finto per fissarvi il cravattino nero e una bombetta nera. Laura rideva a crepapelle. L’avevano notata e volevano portarla sul palco. Mi chiese aiuto e rimase al tavolo. 

Durante quel primo viaggio, alla fiera del marketing di Chicago, conobbi i due soci canadesi della Vox.co da cui decisi di acquistare il software per la Telefield.

Un mercoledì sera, nel marzo 1996, ero da solo a Milano.  Salii a Pasturo e trovai Viviana con Greta in cucina. Mi sembrò particolarmente triste. “Ho incontrato Gianluigi Falabrino” le dissi “mi ha chiesto di te: gli ho detto che avevi fatto una scelta di vita diversa, che stavi in Valsassina “. Mi guardò e scoppiò a piangere. Ci abbracciammo. Fu allora che la invitai a venire con noi al mare in Croazia nel mese di agosto e di stare poi per un paio di mesi in Toscana con Greta. Le serviva una pausa di riflessione. Il suo compagno Dino poteva raggiungerla in seguito, per prendere insieme le decisioni più opportune.

Il 7 aprile del 1997 compivo 60 anni.  Ero rientrato a casa nell’intervallo di pranzo quando mi telefonò la segretaria di Giampaolo per dirmi: “Senti Giorgio mi dice il professore che stasera arriva a Milano Barberini, il Presidente nazionale della Legacoop, amico di Giampaolo e cliente della GPF&Associati. Vuole conoscerti. Vai direttamente a casa del professore alle ore 18.  

Passai le tre ore del pomeriggio pensando a ciò che avrei potuto raccontare. Alle 18 in punto suonai alla porta di Giampaolo e sentii un botto. La porta si aprì davanti a uno striscione ‘ per i 60 anni di Giorgio’. Fu il più inatteso dei compleanni. Erano lì in 30, quasi tutti, per festeggiarmi. Era un appartamento bellissimo, in una vecchia casa a due piani, con le finestre che guardavano sui giardini del piazzale di Porta Venezia, all’angolo con l’hotel Diana. In due saloni comunicanti avevano allestito un immenso tavolo con 32 posti. Servizio e cena erano stati affidati a un’azienda di catering. C’erano 3 camerieri e 2 addetti alle vivande. Dopo cena, musica, ballo, e canti, compresi Bella Ciao e l’Internazionale.

Negli anni sessanta avevo conosciuto Giampaolo Fabris, e avevo prestato la mia garanzia per la sua iscrizione al PCI prima e qualche anno dopo per la sua candidatura a Presidente della Triennale. Quella sera mancava solo la mia Laura, ma ero circondato da persone che mi stimavano e mi volevano bene.

Dall’inizio di settembre Viviana venne a stare con Greta da noi a Fonterenza. Facemmo una lunga chiacchierata con il mio amico, il dottor Betti, il quale ci spiegò che la depressione, soprattutto in giovane età, era una brutta bestia ‘ il cosiddetto male oscuro’, che non era più affare di psicologi, ma di terapia farmacologica. Bisognava trovare quella giusta. Già dopo un mese Viviana tornò a sorridere.  Ora serviva un lavoro che la impegnasse mentalmente e fisicamente. Un imprenditore umbro possedeva l’allevamento del Cetona, dove teneva 10 giumente e i loro puledri. Andammo a trovarlo e, vista l’esperienza fatta al Prà Buscante, accettò di fare con Viviana un periodo di prova. All’inizio dell’anno successivo la assunse dandole per alloggio una bella casetta, completamente arredata, all’interno dell’allevamento. Dino venne a Fonterenza e a Cetona a trovarla, ma non prese neppure in considerazione di lavorare anche lui nell’allevamento del Cetona. Non avrebbe mai lasciato Pasturo e la sua famiglia di origine.

Era iniziata una vita diversa anche per Laura. Durante la permanenza di Viviana a Fonterenza non venne più a Milano. Aveva con sè la nipotina e la figlia. Poche settimane prima dell’arrivo di Viviana era successo un fatto che l’aveva sconvolta. Durante una delle sue passeggiate con Lea era stata avvicinata da un contadino che stava nelle vicinanze e che conoscevamo bene. Senza tanti giri di parole, vedendola sola, le aveva proposto di accoppiarsi nel bosco, vicino a casa. Laura era rimasta senza parole e se n’era scappata a casa.

Quando arrivai la sera del venerdì: “Adesso te conto una” mi disse” go incontrado  X quassù  vizin al bosco e el me ga proposto de far a l’amor”. Balbettava, a metà tra il riso e il pianto. Il giorno appresso andai a trovare mister X e, pensando anche all’arrivo di Viviana e Greta, gli dissi:” Si vergogni e non le venga più in mente di parlare con mia moglie o mia figlia in questo modo, altrimenti la denuncio”. Farfugliò qualcosa, quasi fosse una cosa normale, come avviene fra gli animali, e mi salutò.

Dopo il trasferimento di Viviana e Greta all’allevamento del Cetona si era comunque chiusa per Laura la parentesi delle settimane trascorse a Milano. La riforma delle pensioni firmata Dini aveva allontanato per entrambi l’età del pensionamento, per Laura al 2000 e per me al 2002. Laura si rimproverava di avermi dato ascolto nel dare le dimissioni dall’Abacus nel 1992. La vita spensierata dei primi 5 anni le appariva ora come un ricordo appannato. Si preoccupava per la mia salute e per la fatica dei viaggi settimanali. Non vedeva un futuro facile per Viviana, prigioniera 7 giorni su 7, dell’allevamento del Cetona. Avrebbe preferito tornare indietro.

Nella primavera del 1998 era subentrato un nuovo cambiamento. Viviana aveva preso la patente C per guidare il furgone con i cavalli. Andò con quattro cavalli alla Fiera di Verona per montare lo stand dell’Allevamento del Cetona. Senza avvisarla capitammo lì la domenica mattina con Laura e Greta. Questi incontri improvvisati erano sempre occasione di festa. La domenica successiva ci ritrovammo a pranzo a Cetona. Parlammo tutti insieme del lavoro di Viviana e delle prospettive per il futuro. Nella stanza da letto aveva installato un monitor collegato alle stalle, in modo da poter tenere sotto costante controllo, anche la notte, le giumente gravide, per cui il parto era previsto a maggio. Aveva mezza giornata libera alla settimana. Il proprietario dell’allevamento era contento del suo lavoro, ma lei non intravedeva la possibilità di avere più tempo libero da dedicare a sé e Greta. Ci disse le testuali parol : “ Ho sbagliato tutto, ho passato i trent’anni, devo restare qui per forza”. Discutemmo a lungo e concludemmo che poteva ricominciare.  Viviana e Laura erano titubanti, ma io ero sicuro.

Viviana tornò a Fonterenza con Greta, si iscrisse a un corso accelerato di informatica della durata di 3 mesi a Orvieto e prese lezioni di inglese, grammatica e conversazione, con una signora di Brighton che abitava a Sarteano.  Alla fine di settembre Viviana venne a Milano, a vivere con me nell’appartamento di via Turro e iniziò l’attività di intervistatrice telefonica. Dopo un mese, era già un’esperta intervistatrice CATI (Computer Assisted Telephone Interview). Alla metà di novembre partimmo, Viviana ed io, per Boston, dove avevo un incontro di lavoro e poi per Montreal. Qui incontrammo i due soci della Vox.co. Viviana sarebbe rimasta lì fino a fine dicembre, per imparare a programmare i questionari delle interviste telefoniche con il loro software, di cui eravamo i principali utilizzatori in Italia. Qualche giorno prima di Natale ritornò a Milano, pronta per entrare a far parte del gruppo GPF&Associati dal 1 gennaio 1999. Fu un gran bel Natale a Fonterenza.

Laura, in silenzio, si era fatta carico di tutte le incombenze della famiglia e di far dimenticare alla piccola Greta i bruschi cambiamenti degli ultimi due anni. Scendeva a Sarteano da Fonterenza, per la strada sterrata con un motorino da 50cc e i bambini della scuola materna la chiamavano la nonna volante.

Adesso eravamo in due a partire la domenica sera e a ritornare il venerdì sera. Durante la settimana Greta stava a Fonterenza con Laura, che divenne la sua seconda mamma.

Nel febbraio del 2000 cedetti la direzione generale della GPF& Associati a un dirigente assunto e mantenni il ruolo di amministratore della CFI&GPF e di Presidente della Telefield. Ma i problemi respiratori andavano aumentando, talvolta dovevo rinunciare al fine settimana a Fonterenza. Restavo solo a Milano in un appartamento più grande che avevamo affittato all’angolo fra via Scarlatti e Corso Buenos Aires proprio di fronte alla sede della GPF&Associati. Trascorremmo il Capodanno 2000 e salutammo il terzo millennio, ospiti di Giampaolo nel castello di Pino d’Asti, che aveva acquistato anni prima e interamente ristrutturato. Passammo serate intere a guardare dei film, che lui collezionava, in una sala appositamente attrezzata con schermo gigante

Quella vacanza fu utile anche per riflettere sull’immediato futuro. Laura sarebbe andata in pensione al compimento del sessantesimo anno di età, ad aprile, mentre io dovevo resistere ancora due anni. Decidemmo di trasferirci fuori Milano in una villetta con giardino, per portare con noi anche Lea.

 Alla fine dell’anno scolastico, a metà giugno, traslocammo da via Scarlatti e da Fonterenza a Cermenate, in provincia di Como, lungo la superstrada Milano Meda.

Greta entrava in terza elementare, io partivo in macchina alle 6.30 e rientravo alle 17, mentre Viviana seguiva l’orario normale d’ufficio, utilizzando la linea ferroviaria Como- Milano centrale.

Eravamo nuovamente tutti riuniti in una località collinare, fuori dalla nebbia e dallo smog. Avrebbe fatto bene alla mia salute. Ma non fu proprio così.

Nel marzo 2001 all’ospedale Sant’Anna di Como mi fu diagnosticato un tumore alla prostata, in stato già avanzato. Bisognava operare al più presto, con asportazione totale della ghiandola. Seguirono due mesi di esami approfonditi per accertare la mancata migrazione di cellule tumorali verso altri organi. Fui sottoposto a tre prelievi di sangue per costituire la riserva di plasma necessaria alle trasfusioni in sede di intervento chirurgico. Fui operato all’inizio di giugno ed ebbi una convalescenza complicata da un blocco della vescica dopo la rimozione del catetere. Laura accompagnava a scuola Greta e prendeva il pullman per arrivare all’ospedale Sant’Anna di Como. Restava con me fino all’inizio del pomeriggio, mentre Greta andava a casa di un amica a pranzo e a fare i compiti.

Io uscii dall’ospedale alla fine di luglio. Partimmo per Fonterenza per le ferie di agosto. Era stato un incubo per tutti… ma non sapevamo ancora che cosa ci riservavano i mesi successivi. Appena rientrati a Cermenate, in settembre, ebbi una nuova crisi per blocco urinario. Arrivò l’ambulanza e mi trasportarono all’ospedale Sant’Anna, dove mi riaprirono l’uretra e mi rimisero il catetere, che dovevo tenere per almeno due mesi. Fu così che andavo e venivo in auto al lavoro, con la sacca dell’urina legata all’interno del polpaccio. Finchè stavo in ufficio la situazione era sotto controllo, ma quando dovevo andare da un cliente o partecipare a una riunione in altra sede, ero sempre sul chi va là.

Laura rimpiangeva l’oasi di Fonterenza. Non andavamo più a fare le nostre gite sul lago di Como. In una di quelle, a Laglio, dopo Cernobbio, avevamo scoperto l’Osteria del vecchio molo, con le panche e i tavoli di legno scuro, dove si gustavano i missoltitt, gli agoni affumicati arrostiti e conditi con un filo d’olio d’oliva crudo. E poi arrivava uno chansonnier locale che cantava, in dialetto comasco, ballate bellissime accompagnandosi con la chitarra. Era Van de Sfroos (in comasco : vanno di frodo), alias Davide Bernasconi, che avrebbe avuto successo al festival di San Remo qualche anno dopo.

Finalmente arrivò anche il mese di giugno. La pratica della mia pensione era stata avviata. Tre grandi amiche, Donatella, Maria e Luisa, già socie della Abacus, vennero a Cermenate qualche sera prima della nostra partenza per una serata beneaugurante per il futuro.

Cenammo, brindammo e chiacchierammo a lungo, con la promessa di ritrovarci a Fonterenza. Il giorno appresso arrivarono anche Vittorio, Luisa e Manila. Alla spicciolata vennero a Cermenate a salutarci anche altri ex soci della Abacus, in particolare le colleghe di Laura nell’ufficio amministrazione .

Stavolta ci lasciavamo per sempre Milano alle spalle. Viviana noleggiò un furgone sul quale caricammo tutta la roba. Ci portò giù un sabato mattina e rientrò a Milano la domenica sera in un bilocale affittato a Cinis

 

3.3 I nostri grandi viaggi

Prima di raccontare i nostri ultimi dieci anni a Fonterenza, faccio un passo indietro per parlarvi di alcuni grandi viaggi che feci con Laura. Per lei significarono la scoperta del mondo, al di fuori dell’Italia e dell’Europa. In Europa avevamo viaggiato molto, a Parigi, a Londra, a Budapest, a Berlino, Vienna, Zurigo, Amsterdam, Bruxelles, ma furono gli Stati Uniti a impressionarla.

Il primo grande viaggio lo facemmo nel 1978 a New York, negli States, dove ritornammo poi nel 1995 e nel 1996. Ne parlerò più avanti.

Nel gennaio 1991 partecipai a un Congresso a Hong Kong e ci andammo, via Londra, con un volo diretto di 14 ore. Per Laura fu il superbattesimo dell’aria. Si volava ancora poco, non esistevano i voli low cost, per cui i viaggi transatlantici, andata e ritorno, costavano tutti oltre 1 milione di lire per persona. Fino all’ultimo il viaggio fu in forse. Essendo scoppiata la guerra del golfo le compagnie aeree avevano modificato le rotte per evitare di sorvolare la penisola araba ed i Paesi confinanti. Mentre gli iscritti al convegno partecipavano ai lavori, l’organizzazione propose agli accompagnatori delle visite alla città, cui Laura partecipò, incoraggiata dalla presenza della moglie di un nostro amico di Milano. Mi faceva poi un resoconto dettagliato a cena. Visitò così il mercato, 24h no stop, dove le bancarelle avevano tutte un retro con una branda per consentire agli ambulanti un riposino a turno. Laura fu impressionata dalle anatre laccate appese per le zampe in lunghe file. 

Un altro giorno visitò un appartamentino di 30 mq in cui viveva una famiglia di 6 persone, dove erano sistemati 3 letti a castello, due armadi, un fornello e un mini bagno con doccia e wc. Laura rideva raccontandomi la coda delle 12 visitatrici, che accedevano all’interno 2 per volta. Poi si pentiva di ridere e diventava seria pensando alla tristezza di una vita simile in una casa tanto piccola.

Una sera andammo tutti, congressisti e accompagnatori all’ippodromo a vedere le corse dei cavalli. I cinesi di Honk Kong sono giocatori assatanati. La città era piena di chioschi dove si facevano le giocate.

Dedicammo il giorno libero ad una gita organizzata in territorio cinese, a Canton. Lungo la strada sterrata che portava da Tsing Yi a Canton fummo colpiti dai campi sterminati coltivati con l’aratro trainato dai buoi e accompagnato dal contadino a piedi. Ne vedemmo a centinaia. Ogni tanto si ergeva nella campagna un palazzone di 5 o più piani. La guida ci spiegò che in quei palazzoni abitavano le famiglie dei contadini che lavoravano in quei campi. Accanto a ogni palazzo c’era un capannone per animali e attrezzi.

Della città di Shengzen (Canton) ricordo le strade piene di polvere sollevata da camion, motocicli, biciclette e ricsciò, affollate da pedoni e banchi di vendita. E poi tante piccole pagode, anch’esse affollate di povera gente che andava a deporre ai piedi del Buddha alcune vivande. Questa era la Cina anni ’90.

Ero a Milano da solo, ai primi di aprile del 1995 quando mi telefonò Laura. La sentii un po’ agitata. L’aveva chiamata una signorina della Francorosso, cercando di me. Le aveva detto che avevamo vinto un viaggio a New York di una settimana per due persone. Pensammo fosse uno scherzo, presi nota del numero telefonico e, ritornato a casa, richiamai. Era davvero la Francorosso,  mi comunicavano  che avevamo vinto il secondo premio del concorso del Club degli editori. Due anni prima, dopo il nostro arrivo a Fonterenza mi ero iscritto al Club degli editori e, quasi ogni mese, acquistavo un paio di libri.

Passai la settimana successiva alla sede della Francorosso e ritirai il voucher per il viaggio aereo e l’albergo. Mi concessero di fare una variante, 3 giorni a New York e 4 giorni a Miami, senza alcun costo aggiuntivo. La data fu fissata per la prima settimana di giugno. A New York eravamo già stati per una settimana, nel 1978, in viaggio di studio, quando era stata costituita la Abacus.  I 4 giorni trascorsi a Miami furono memorabili. Noleggiammo un autovettura. Il giorno dopo l’arrivo percorremmo per circa 150 miglia la Sea Highway fino a Key West, l’isola dove visitammo la casa di Hemingway. E’ un’autostrada mozzafiato, che collega l’intero arcipelago delle Keys, composto da oltre 12 isolette, da Miami fino a Key West, con ponti che salgono verso l’alto, quando a 100 km all’ora ti par di essere sospeso fra cielo e mare, per poi scendere sull’isola successiva. Alla sera ci fermammo a Islamorada. In fondo a un pontile di legno avevamo visto una trattoria. Abbiamo mangiato granchi giganti. Con le chele dei granchi ci prepararono un risotto eccellente. Laura fu sconvolta quando chiesi quante chele servivano per fare un risotto per due.” Otto chele” mi rispose il cameriere “non è un problema, si staccano le chele dai granchi vivi, che vengono rimessi in mare, poi ricrescono”.

 Il giorno dopo andammo all’Everglades National Park.  Alle 8.30 eravamo davanti al cancello d’ingresso ancora chiuso. Poco dopo arrivò un pullmino, dal quale scesero 8 indiani adulti e due ragazzini e andarono a installarsi nelle rispettive tende montate in fondo al piazzale d’ingresso. Alle 9 in punto aprirono i cancelli. Era come una fabbrica.  Iniziava lo spettacolo. Uno degli indiani era al banco del bazar, davanti due donne accucciate filavano un tappeto. Un altro indiano suonava il flauto facendo uscire da una scatola un serpente. I due ragazzini, su una sorta di tatami si esibivano in combattimento. Altri due adulti arrostivano salsicce e preparavano hot dog. Uno di loro mi spiegò con la massima serietà che vivevano a Miami in una casa con due appartamenti. A sinistra della strada che arrivava da Miami c’era la visita del parco con gli indiani, a destra della strada la visita del parco con i Rangers. Con gli indiani facemmo un breve giro con una barca a motore rumorosissima che spargeva il terrore fra gli animali.  Nel pomeriggio con i Rangers salimmo su una barca a remi che scivolava silenziosa sulle acque della laguna. Poi ci fecero scendere e camminare a piedi per salire su una torretta di avvistamento in legno. Non sopportavano gli indiani che con le loro barche a motore inquinavano le acque e l’atmosfera, spaventando la fauna. Il terzo giorno lo trascorremmo all’acquario di Miami, forse il più grande del mondo, assistendo a uno straordinario spettacolo con le otarie. Di questo viaggio a Miami Laura conservò un ricordo indimenticabile. Ne parlava sempre.

Nel 1978 avevamo fatto insieme, Laura ed io, il primo viaggio negli Stati Uniti. Ho sempre considerato gli States come l’Università del Marketing. Negli anni Settanta e Ottanta, prima dell’avvento di Internet, bisognava viaggiare e fermarsi almeno una settimana in un Paese, per capire come lavoravano nel tuo settore di attività e capire che cosa poteva essere utilizzato in Italia e importarlo, per avere sul mercato un anticipo di almeno 3 anni. Non tutte le loro tecniche di ricerca di marketing e comunicazione sono utilizzabili in Europa, ma un buon 25% lo sono. Dal viaggio di studio del 1978 avevo importato l’idea dei sondaggi e del marketing telefonico e l’idea del caravan attrezzato per fare test e interviste all’uscita dei supermercati. Mi ero costruito, con l’aiuto di alcuni amici dirigenti di agenzie di pubblicità, un calendario di appuntamenti: passai una giornata intera alla Mc Cann, una giornata alla Ogilvy, una giornata nella casa editrice Mc Graw Hill e una giornata alla Simmons&A.  Laura andava a passeggio per NewYork percorrendo ogni giorno due Avenues da cima a fondo, zig zagando poi nelle strade laterali.

Alla sera andavamo a cenare in qualche ristorantino etnico, cambiando Paese ogni giorno e Laura mi raccontava le sue scorribande diurne. Aveva scoperto un capannone dove erano in vendita tutti i possibili accessori per l’equitazione e i prodotti per l’alimentazione e la cura del cavallo. Il paradiso del cavaliere insomma, in cui aveva passato l’intera mattinata. All’ora di pranzo Laura ritornava a riposare in albergo, prima di fare il giro pomeridiano e ritrovarci poi verso le 18. La entusiasmava la vista degli animaletti nei parchi, gli scoiattoli che arrivavano saltellando fino ai suoi piedi per prendere qualche nocciolina, il rispetto che grandi e piccini dimostravano per queste bestiole.

Ritornammo ancora una volta insieme in California nel 1996 in occasione di un Congresso internazionale sui media.  Prima di presentarmi al Congresso a San Francisco, trascorremmo alcune giornate a Los Angeles e a Las Vegas, con gita sul Gran Canyon. La passeggiata sul marciapiede delle star dove ogni artista ha la sua mattonella entusiasmò Laura, che da ragazza era stata una fan di James Dean, come tante sue coetanee. Ma a entrambi piacque molto Santa Monica, con la sua mega spiaggia e con tutti i negozietti di abbigliamento. Per far visita a Las Vegas e al gran Canyon impiegammo tre giorni. Un giorno di viaggio, con 5 ore di pullman per raggiungere Las Vegas e poi un’ora di volo su un aereo a 10 posti per arrivare al villaggio alla sommità del gran canyon, dove abbiamo cenato e pernottato. Il motel era gestito da una famiglia di indiani. A cena ci servirono una steak gigantesca con una serie di contorni.

Dopo cena salimmo al belvedere dove restammo per più di un’ora ad ammirare nella penombra l’enorme incavo dove sul fondo scorre il fiume. In alto la luna e le stelle. Il giorno dopo prima di riprendere il pullman per Los Angeles facemmo una breve visita al Caesar Palace, il più grande casinò, con centinaia di macchinette mangiasoldi. Ma è stata San Francisco a conquistarci. Il giro in città in cable car, la traversata del Golden Gate, la gita in nave attraverso la baia fino alla fortezza di Alcatraz. E poi il villaggio dei fiori, dove nacque nel 1967 il movimento hippy e i numerosi locali con le jam sessions jazz. In uno di questi ci portò Mario, il mio ex datore di lavoro e grande amico mio e di Laura, nonché cultore di musica jazz.

E poi il Muir National Park, all’interno del quale si possono ammirare le sequoie sempre verdi, parenti delle sequoie giganti del Sequoia National Park. L’albero più alto all’interno del parco misura quasi 80 metri e quelli più vecchi hanno circa 800 anni.

Di questi viaggi conservammo solo pochissime foto e nessun filmato. Ma ne parlavamo spesso come esperienze straordinarie che avremmo voluto ripetere.

Tra i progetti c’era un Coast to Coast negli States. Gli Stati Uniti, già babau del popolo della sinistra, dove avevo dovuto dichiarare il falso per entrare nel 1972 ci avevano conquistati entrambi. La gentilezza delle persone, la curiosità nei confronti degli europei, l’interesse per l’Italia.

Raccontai a Laura del mio primo viaggio a New York nel 1972 quando Il direttore marketing dei magazine Time&Life, al termine dell’incontro di un’ora, mentre lo ringraziavo per l’attenzione e il tempo dedicato a me, giovane sconosciuto, disse :  “ I thought that you crossed the Atlantic , I wanted to know your impression and give you any information required, it was an obligation for me” .

 

 Pensai allora a quante volte mi ero negato al telefono a un visitatore che veniva dagli States e ne provai vergogna.

Sempre in quel primo viaggio, in visita a un Centro di Calcolo, avevo visto un software molto innovativo per IBM 1130. Non avevo in Doxa il potere di firma e quindi dissi che ne avrei parlato alla direzione. Il mio interlocutore rispose:

Take it with you , try it in Milano, then if your boss is satisfied, buy it, otherwise send it back to me”. Che dire? Lontano mille miglia dalla nostra cultura della copia facile.

Dopo il viaggio del 1978 negli States, Laura incominciò a sognare un ranch con tanti cavalli nell’Oklahoma. Qualche anno dopo si profilarono invece le pendici del monte Cetona e Fonterenza, dove avrebbe cavalcato sir Arg

 

4. a Fonterenza

 

4.1 Finalmente stabili

Dopo tanti avanti e indietro, giurai a Laura che non ci saremmo più mossi. Arrivammo a Fonterenza nel giugno 2002, appena finita la scuola di Greta. Per il mese di agosto avevo affittato una casetta in Istria a Krnica, 20 km a nord di Pola, sulla costa orientale. Ci sarebbero state anche Viviana con Greta. Una settimana prima di partire Laura mi disse: “Semo pena rivai, mi gavaria deciso de star qua, andè voi, ti, Viviana e Greta”. Il suo condizionale, lo conoscevo bene, era un modo di farmi capire che la decisione l’aveva presa ed era inutile discutere.

Passammo una vacanza in allegria, tranne che per due ‘incidenti’. Io ebbi un attacco di mal di schiena e dovetti sottopormi a una serie di massaggi in un grande albergo di Kavran, dove c’era una struttura interna con personale professionista. Viviana pochi giorni prima della partenza, nell’ultima gita a Pola, inciampò uscendo da un negozio di alimentari e cadde fratturandosi il quarto e il quinto metatarso. Ossicini terribili, che la costrinsero ad un riposo forzato a Fonterenza per due mesi.

Il primo novembre capitò di venerdì. Ero arrivato a Fonterenza la sera prima. Verso le 11 scesi con la piccola fuoristrada lungo la sterrata che porta a San Casciano dei Bagni. Incontrai una decina di gitanti, uomini e donne, di età fra i 50 ed i 60 anni. Mi chiesero se c’era un’osteria nei paraggi, ma li delusi dicendo che bisognava arrivare a San Casciano dei Bagni. Dovevano fare ancora più di 5 km. Giunto in paese acquistai il dolce per noi e poi dal negozio di alimentari mi feci fare dodici panini imbottiti e acquistai 2 bottiglie di vino e dei bicchieri di carta. Sulla via del ritorno, li vidi in fondo alla strada. Fermai la macchina, stesi sul cofano un giornale e misi panini e bottiglie di vino in bella mostra. Appena arrivati sgranarono gli occhi e uno di loro esclamò: “Ma lei è l’arcangelo Gabriele!”. Chiacchierammo mangiando i panini. Erano tutti torinesi. C’era il Presidente della Camera di Commercio, un chirurgo delle Molinette, il direttore della rivista l’Indice, un docente del Politecnico, ecc. Mi raccontarono che avevano affittato due casali nella tenuta di Spineta, a due km da casa mia, e che stavano lì fino a domenica. Erano in 20, tutti membri del club Babette, fondato da loro e dedito all’arte culinaria. Ogni anno organizzavano un ritiro di 3-4 giorni per sperimentare una serie di ricette. Altri 10 soci si erano sottratti quella mattina al trekking verso San Casciano dei Bagni. Mi invitarono, con mia moglie, alla cena sociale del sabato sera.

Con Laura scendemmo in paese sabato mattina per comprare la trippa da cucinare per la sera. Ma Laura si rifiutò di venire. Al suo posto scese Viviana. Era socio del club anche Chiamparino, l’allora sindaco di Torino, ma era stato trattenuto all’ultima ora da una vertenza in corso fra i sindacati e la Fiat. Fu una serata all’insegna dell’allegria. Loro avevano preparato un pentolone di panissa e una variante sperimentale della bagna cauda. Anche la trippa alla triestina di Laura fu molto apprezzata.

Viviana ritornò a Milano e noi incominciammo il nostro primo inverno a Fonterenza con  Greta. A scuola aveva ritrovato le amiche di tre anni prima, ora erano in quinta elementare. Ogni mattina arrivava lo scuolabus, guidato da Gianni. Fino a Natale Viviana, pur avendo ripreso il lavoro, aveva bisogno di essere aiutata in casa. La mia grande amica Donatella le offrì di convivere nel suo appartamentino di corso Vercelli.

Fonterenza cominciava a starmi un po’ stretta. Ma Laura era stata chiara “ Ti va dove te vol, mi no me movo”. Chiesi un incontro a Silvano Meloni, Presidente della Readytec, la più importante azienda di Chiusi, operante nel settore dei software gestionali. Gli spiegai che intendevo aprire un ufficio di consulenza di marketing e di comunicazione a Chiusi. A tale scopo avevo parlato con una giovane laureata in economia e commercio, Fausta Tistarelli, che lavorava a Padova da qualche anno, in uno studio di consulenza aziendale e ora desiderava ritornare a Sarteano. Silvano fu interessato all’idea di entrare in società con noi perché gli era utile contare sulla collaborazione di consulenti esterni nelle trattative con le aziende, in sede di analisi della loro organizzazione interna, fase preliminare all’installazione di un gestionale. Nacque così la Visa snc Visintini&Associati.

Io scendevo a Chiusi 4 giorni alla settimana. Avevamo quindi un week end lungo a disposizione. Incominciammo con Laura una nuova avventura, alla scoperta dei sentieri del Monte Cetona. Alla sera discutevamo del percorso che avremmo fatto l’indomani. Raggiungevamo in macchina il punto di partenza e poi ci avviavamo a piedi. Io avevo bisogno di ricuperare le energie fisiche perdute negli ultimi anni.

Laura mi precedeva sempre, ogni tanto si fermava ad aspettarmi. Ci divertimmo a numerare i sentieri che percorrevamo. Ci capitava di camminare, con qualche sosta, per 3-4 ore. Lea non veniva più con noi, aveva compiuto 11 anni, ma si stancava presto. Anche per sir Argy erano finiti i tempi delle grandi passeggiate a cavallo, aveva 25 anni. Al mattino presto Laura lo accompagnava dalla stalla fino al nostro campo e andava a riprenderlo alla sera. Aveva sempre in tasca qualche zolletta di zucchero e quando sir Argy la sentiva, le correva incontro andando a strusciare il muso sulla sua tasca.

Viviana scendeva ogni fine settimana dal suo appartamentino di Cinisello Balsamo per stare con Greta e con noi a Fonterenza.

La Visa snc iniziò l’attività nella primavera 2004. Fausta ed io eravamo spesso in Readytec, per cui c’era bisogno di una persona fissa in ufficio, per svolgere mansioni di segreteria e di amministrazione. Laura si rifiutò di prendere in considerazione questa possibilità e mi disse: “ Dighe a tua fia, cussì no la devi più far l’andirivieni da Milan. E po’ sarà meio che la se occupi ela de Greta”.

Greta frequentava la seconda media a Sarteano, ma, finita la terza media, avrebbe proseguito a Chiusi o a Montepulciano e non sarebbe stato più possibile per lei vivere a Fonterenza. Fu così che Viviana lasciò Milano, divenne socia della Visa snc e ritornò da noi in attesa di trovar casa a Chiusi.

Laura ed io avevamo finito di perlustrare i sentieri del Cetona, fissando 12 itinerari. Ora dovevamo spostarci nella zona di Castiglioncello del Trinoro.  Da Sarteano si sale per la strada sterrata dei Cappuccini, in mezzo al bosco, fino ad arrivare al cimitero e all’ex convento sopra l’albergo la Torre ai Mari. Da lì si passa per le celle di San Francesco e si arriva sull’altopiano della Solaia. Lo si attraversa, fino a Poggio Rotondo e si scende al borgo di Castiglioncello del Trinoro. Da qui ci sono poi più alternative per proseguire. Si può scendere verso la Foce, attraverso la via Chiarentana oppure attraverso la Riserva Naturale di Pietraporciana. Altrimenti si può scendere verso la via Cassia.

Passammo l’estate a camminare da quelle parti, catalogando 10 itinerari.

Durante l’autunno e inverno successivi, decidemmo di esplorare la parte bassa del territorio di Sarteano, compresa fra l’Autostrada A1, ed i comuni di Cetona e Chianciano.

Potevamo camminare anche nelle giornate più fredde, senza il fastidio della tramontana che soffia più forte in montagna.

E qui scoprimmo dei percorsi interessanti, primo fra tutti la via Cupa, la vecchia strada acciottolata che collegava Sarteano a Chiusi. Catalogammo così altri 10 percorsi. In totale avevamo 32 itinerari. Li sapevamo a memoria. Al mattino facendo colazione Laura diceva un numero, io un altro e poi decidevamo quale dei due era più adatto per quella giornata, a seconda del tempo e della lunghezza del percorso.

 

Nel 2015, con l’aiuto dell’amico Eugenio, ho raccolto questi 32 itinerari , ciascuno con nome, grado di difficoltà, pianta, breve descrizione del percorso, in 3 volumetti per conto della Pro Loco di Sarteano.

Nel marzo del 2004 la Lea morì di tumore. Conoscevamo la diagnosi, ma non pensavamo ad una fine così improvvisa. Io mi trovavo ad Arezzo per lavoro, quando mi giunse la telefonata di Laura che piangeva. La Lea non si era fatta trovare quella mattina. L’aveva cercata finchè la vide seminascosta in un cespuglio dietro casa. Era già morta.

Dopo pochi mesi, all’inizio del nuovo anno scolastico, il Gianni che saliva sempre a Fonterenza con lo scuolabus per prendere Greta alle 7.30 ci disse che Brunella, la sua compagna, aveva tre bei cuccioli di due mesi. Brunella è molto conosciuta a Sarteano, sia come guida ambientale che come amica degli animali. Ha attrezzato un terreno per ospitare cani abbandonati. Qualche settimana prima aveva trovato davanti al cancello una cesta con i tre cuccioli. Scendemmo a trovarla Laura, Greta ed io e prendemmo una femmina. Avevamo da poco letto un racconto dello scrittore triestino Fulvio Tomizza, Trick storia di un cane, che ci era piaciuto molto. Fu così che la chiamammo Tricky. Il veterinario ci disse che era un misto maremmano-setter.

Nel maggio del 2005 Laura ed io, insieme a Tricky, facemmo un viaggio in macchina verso la Camargue, il paese dei cavalli. Trascorremmo in un bed&breakfast tre giornate favolose. Dovunque andassimo incontravamo gruppi di cavalli bianchi al pascolo o in passeggiata con i cavalieri. Ci fermammo a Marsiglia, dove mio nipote Pierre, giovane medico, figlio di mio fratello Giulio, riceveva la laurea nella specializzazione anestesia-rianimazione. Ripartimmo al mattino presto e, con un viaggio di 16 ore, arrivammo a sera tardi a Fonterenza. Questa bravata mi costò cara. Due giorni dopo accusai dolori al ventre, ero pallido e sudavo, seduto in poltrona. Trascorsi così l’intera domenica.

Durante la notte i dolori divennero più acuti. Chiamai il mio amico Domenico, che salì a Fonterenza appena finito l’ambulatorio. Dopo un rapido esame diagnosticò l’appendicite acuta che stava trasformandosi in peritonite. Mi ricoverarono subito all’ospedale di Nottola dove, già in serata, fui operato e passai la notte in rianimazione.

La degenza durò due settimane, perché era intervenuta, nel frattempo, una infezione broncopolmonare.

Quando ritornammo a casa Laura mi disse: “ Gavemo lassado Milan, per vegnir qua a goderse la veciaia. Meti la testa a posto una bona volta, se no mi vado a Trieste”.

Era un vero e proprio aut aut. Nell’inverno 2005 la Readytec mi chiese di analizzare la situazione di una società partecipata la Farma&tec, che operava nel settore delle farmacie. Redassi un piano di marketing per il biennio 2006-2007 e lo presentai alla direzione dell’azienda, coinvolgendo anche Viviana. La presentazione fu convincente, perché mi chiesero di aiutarli a trovare una persona da assumere per farsi carico della sua attuazione.  La scelta cadde su Viviana che dal gennaio 2006 entrò a far parte della Farma&tec. Alla fine del 2006 io cedetti le mie quote della Visa snc a Fausta e Silvano.

Mantenni solo un rapporto di consulenza con la Farma&tec per affiancare Viviana nei primi due anni. Scendevo a Chiusi una sola volta alla settimana. La minaccia di Laura aveva funzionato. Compivo i 70 anni, era tempo di pensare solo a noi due. Viviana aveva trovato casa a Chiusi e Greta, terminata la scuola media, entrò alle superiori di Chiusi in prima ragioneria.

Io camminavo lentamente ma ancora con sufficienti energie. Da un paio d’anni usavo i bastoncini del Nordic Walking per sostenermi da un equilibrio sempre più precario. Finchè il mio amico Domenico mi consigliò di sottopormi ad un esame di elettromiografia, da cui emerse un deficit medio grave di capacità motoria e sensitiva. Domenico fu molto chiaro: “Devi fare assolutamente qualcosa, caro Giorgio, altrimenti rischi di ritrovarti fra qualche anno su una sedia a rotelle’.  Una sua collega Carla Battisti, neurologa, dirigeva il reparto di malattie neuro metaboliche rare. “Sarebbe bene farti ricoverare una settimana per fare tutti gli accertamenti necessari e individuare una terapia adatta a contrastare il deterioramento della situazione attuale.”

Accettai la sua proposta. Seduta stante, telefonò a Siena e parlò con la collega neurologa. Mi avrebbero chiamato entro il mese successivo.  A Siena mi seguì personalmente la dottoressa Carla Battisti. Fui sottoposto a una lunga serie di esami e alla fine della settimana il referto di dimissione parlava di: patologica  assenza dei potenziali motori e sensitivi agli arti inferiori’. Mi raccomandò di seguire una terapia a bimestri alternati e di sottopormi ogni anno ad un controllo.

Sir Argy compiva 34 anni nel 2010. Il veterinario della tenuta di Spineta veniva a trovarlo spesso. Era il cavallo più vecchio della zona e ci teneva a prestargli ogni cura. All’inizio di aprile, una mattina come sempre, Laura lo accompagnò sul nostro campo. Rientrò in casa e mi disse: “ Argy sta mal, nol gà nianca voludo la carotina”. Un’ora dopo andò a vederlo, era sdraiato a terra. Chiamammo il veterinario che arrivò subito, gli fece un’iniezione, ma disse: “ Purtroppo non c’è nulla da fare; non reagisce”. Laura rimase seduta accanto al cavallo, che sembrava assopito. Due ore dopo morì, senza essersi ripreso.

 

La Farma&tec si avvaleva della collaborazione di una rete di concessionari esclusivi in tutta Italia. Ogni anno Viviana organizzava la convention di due giorni con i 20 concessionari. In quegli incontri venivano presentati i nuovi prodotti e discussi gli obiettivi di vendita.

Fu così che nel marzo 2008 conobbe Paolo Marchesini, contitolare della concessionaria di Latina. In autunno lo invitò a pranzo a Fonterenza e lo conobbe anche Laura. Io lo avevo già incontrato per ragioni di lavoro e dovetti abituarmi alla sua presenza: era la prima persona, in famiglia, che guardavo dal basso verso l’alto, io 1.86, lui ben 1.96!

La prima domenica di agosto del 2010 pranzammo alla Monaldesca da Adio. Alla fine del pranzo, Viviana si alzò: “ Paolo ed io abbiamo deciso di sposarci, domenica 10 ottobre a Ponza.”. Per l’emozione non trattenni le lacrime, mentre Laura abbracciava la sua cittina. Avevano scelto luogo e data in ricordo dei miei genitori che si erano sposati da confinati a Ponza, il 10 ottobre 1930.

Laura aveva sofferto per le vicende tormentate della vita sentimentale di Viviana, anche se cercava di non dimostrarlo. Alla fine di ogni relazione si preoccupava. Viviana mostrava sempre all’esterno il suo sorriso, ma una mamma sa leggere anche negli occhi, oltre le apparenze.

Laura mi disse quella sera di agosto: “ Penso che stavolta sarà solida. I se sposa. Se no i continuava cussì. Ti te podarà meterte quel vestito grigio estivo che te sta ben, tanto a Ponza in ottobre xè ancora bela stagion”. Era già passata agli aspetti pratici dell’evento.

Venerdì 8 ottobre, al mattino, scendemmo a Chiusi, Laura ed io con la Tricky, per prendere Greta a casa sua. Era una giornata splendida, con un sole ancora caldo. Il programma prevedeva il nostro arrivo a Ponza in serata. Viviana sarebbe arrivata la mattina dopo con Paolo e uno dopo l’altro gli invitati, amici ed amiche di Viviana da Milano e Roma, oltre alla sorella, al fratello di Paolo e al suo socio.

 Greta era appena scesa in strada e stavamo per salire in macchina, quando un cane che passava, corse verso la Tricky che stava vicino a Laura. Mi urtò ed io, preso alla sprovvista e instabile sulle gambe, stramazzai a terra.  Non riuscivo più a tirarmi su. La gamba sinistra non rispondeva. Laura si mise a gridare. Qualcuno chiamò il 118 e poco dopo arrivò l’ambulanza. Greta aveva appena preso la patente, ma non se la sentiva di guidare la mia macchina in quella situazione. Chiamò un suo compagno di scuola, di un anno più grande, che si mise al volante, mentre Laura saliva con me sull’ambulanza.

All’ospedale il referto fu impietoso: frattura del femore e del polso della mano sinistra. Ricovero immediato e intervento chirurgico in serata. Non avrei dato il braccio a mia figlia accompagnandola davanti al sindaco di Ponza.

Chiesi a Laura di partire sabato mattina, dopo l’operazione, con Greta e di raggiungere Latina dove avrebbero proseguito per Ponza con Viviana e Paolo. Ma Laura fu irremovibile: “Cossa vado a far mi senza de ti” disse “per sti giorni me rangerò, trovarò qualchedun che me compagni da casa in ospedal”. Al telefono Viviana si disperò per il grave incidente occorsomi e per l’assenza di entrambi i genitori al matrimonio.  Per Latina partì sola la Greta.

Tre giorni dopo l’intervento, un fisioterapista mi aiutava già a fare i primi movimenti. Laura trascorreva le giornate con me. Greta frequentava l’ultimo anno di ragioneria e, alla sera, veniva con la mia macchina a prendere Laura per riportarla a Fonterenza, mentre Viviana si tratteneva con me. Mi fu concesso di ritornare a casa senza fare la riabilitazione in ospedale, purchè seguissi un programma rigido a domicilio, con l’assistenza di una fisioterapista inviata dalla ASL. Noleggiammo un letto da ospedale e un deambulatore, che furono installati nello studio a Fonterenza. Laura mi assistette per un mese. Mi aiutava a scendere dal letto, controllava i tempi d’uso del deambulatore, mi lavava e puliva amorevolmente. Avevo anche il braccio sinistro ingessato. Era stanca, ma allo stesso tempo soddisfatta di avermi nelle sue mani, non potevo sfuggirle.

In 3 mesi ripresi a guidare la macchina, con cautela. Avevo difficoltà a trovare il pedale del freno, per cui ero sempre pronto a imbracciare il freno a mano. Avevamo superato insieme anche questo ostacolo.

In autunno Laura incominciò a sentirsi stanca, le capitava di stendersi qualche volta sul divano. Accorciava i tempi delle sue camminate mattutine con Tricky. Fu la prima volta che venne con me dal medico. Dagli esami e da una visita cardiologica emerse la diagnosi di fibrillazione atriale. Non era mai stata ammalata. Aveva sempre curato me.

Ogni settimana doveva controllare i valori di emoglobina e aggiustare il dosaggio della terapia.

Nel giugno 2012 emerse un grave deficit dei valori per cui fu ricoverata all’ospedale di Nottola per una settimana e subì una trasfusione di sangue. Lei camminava su e giù per i corridoi, prestava assistenza ad alcune donne ricoverate, pareva una infermiera volontaria. La dimisero con un nulla di fatto. I valori di emoglobina erano tornati nella norma. Purtroppo appresi qualche anno dopo che, fra le cause possibili di crollo dei valori di emoglobina, c’era anche il cancro.

Il 4 dicembre del 2011, la sua bambina Greta, dopo essersi diplomata a luglio, partì per Londra. Un mese dopo aveva già trovato casa e lavoro. In marzo, conobbe Mark un ragazzo sudafricano e venne con lui a Fonterenza nell’agosto del 2012. Avevamo programmato con Laura un viaggio a Londra in occasione delle Olimpiadi, che per lei erano il grande evento sportivo quadriennale. Non perdeva una gara di atletica leggera.

Conosceva i nomi di tutti gli atleti che gareggiavano nelle diverse specialità della corsa, dei salti, dei lanci. Sognava Usain Bolt. Anche quell’anno guardammo le Olimpiadi in TV. Probabilmente non sentiva in cuor suo di avere le forze sufficienti. Preferì aspettare Greta e Mark a Fonterenza.

Durante quel mese spiò Mark per capire se poteva essere il ragazzo che avrebbe fatta felice la sua Greta. Era ben consapevole di essere solo la nonna, ma in cuor suo la viveva come una seconda figlia.

Nel mese di febbraio del 2013 i fenomeni di stanchezza si accentuarono accompagnati da una persistente tosse. Ma Laura si rifiutò di ritornare in ospedale per un controllo, invano cercammo di convincerla Viviana ed io.

Alternava giornate di spossatezza a giornate di rinnovata energia in cui riprendeva le passeggiate con Tricky. Nonostante il divieto del cardiologo, continuava a fumare. “ No posso far de meno. No buto zò el fumo, lo mando subito fora del naso”.

Capitava che si svegliasse di soprassalto la notte, stando seduta sul letto, tossiva, tossiva… Il venerdì notte 10 maggio ebbe una crisi acutissima. Al mattino mi chiese di andare a casa da Domenico per farmi una prescrizione di ricovero. Non volle l’ambulanza. L’accompagnarono all’ospedale Paolo e Viviana, mentre io restavo a casa. Due ore dopo mi giunse la telefonata di Viviana in lacrime :” Le hanno fatto subito una TAC,  c’è un tumore ai polmoni e una pleurite in stato avanzato.  Viene ricoverata alle Scotte a Siena. La accompagniamo noi, poi ti richiamo. Purtroppo dicono che la situazione è molto grave

Ritornarono a Fonterenza alle 23 passate.

Al pronto soccorso delle Scotte avevano fatto un’altra TAC che confermava la diagnosi di Nottola. Era addirittura peggio, non c’erano speranze.

Mi parve che il mondo mi crollasse addosso. Come era possibile che io avessi superato tante situazioni, anche gravi, e la mia Laura, il camoscio del Cetona, dovesse soccombere

 

4.2  La fine

Domenica 12 maggio, Viviana ed io andammo all’ospedale. Era seduta a letto. Ci mostrò sotto il letto una bacinella piena a metà di liquido drenato dalla pleura. Sembrava tranquilla. Alle 12 mi ricevette il medico. Mi spiegò che la trattenevano qualche giorno nel reparto ricoveri del pronto soccorso per completare gli esami diagnostici, in attesa di trasferirla in oncologia. Sarebbe stato più preciso in seguito.

Purtroppo le condizioni erano disperate. Passammo la giornata chiacchierando, sforzandoci di nascondere la nostra angoscia. Avevo sempre chiesto a Laura di dirmi la verità nel caso in cui mi avessero ricoverato in gravi condizioni all’ospedale. Ora mi ritrovavo io nella situazione, mai immaginata, di doverle dire la verità.

Ricordo che le dissi: “Hanno trovato una grande quantità di liquido nella pleura e devono drenarla, un po’ alla volta. Saranno necessari un paio di giorni. Era questa la causa principale delle tue crisi delle ultime settimane”. Mi sorrise, ma non so se mi credette.

Mentre ritornavamo a casa Viviana mi disse:” Dobbiamo telefonare a Greta”. Io temevo che l’arrivo precipitoso di Greta sarebbe stato per Laura un segnale di estrema gravità della situazione. Ma Viviana insistette: “Non me lo perdonerebbe mai”.

 Il giorno dopo Greta ci richiamò. Aveva chiesto le ferie anticipate ed aveva prenotato il volo per il martedì. Sarebbe arrivata la sera.

Martedì mattina incontrai il primario del pronto soccorso. “La diagnosi è ‘microcitoma’, il peggiore dei tumori polmonari, che non lascia via di scampo” mi disse “giovedì verrà trasferita in oncologia, reparto dei trattamenti chemioterapici, dove vengono ricoverati anche i degenti terminali, non trattabili’.

Presi allora il coraggio a quattro mani e spiegai a Laura: ‘ hanno diagnosticato un tumore al polmone; non possono operarti subito, devono prima curare la pleurite. La degenza sarà lunga. Ti saremo tutti vicini. Domani arriva anche la Greta, che verrà con me all’ospedale ogni giorno”.

Dissi ai medici che avevo informato Laura del trasferimento in Oncologia.

Mercoledì arrivai con Greta. Fu un abbraccio struggente. Corsi via al bar, per non piangere anch’io davanti a loro. Insieme a Greta, Laura pareva ritrovare un po’ di serenità. Le avevano tolto la cannula del drenaggio. Si alzava dal letto e, con la complicità di Greta, andò anche qualche volta sulle scale a fumarsi una sigaretta.

Il trasferimento in Oncologia avvenne la mattina dopo. Fu ricoverata in una grande stanza a 6 letti. Gli altri degenti stavano lì per pochi giorni, in chemioterapia, poi tornavano a casa. Con Greta arrivavamo verso le ore 12, alla fine delle visite e stavamo fino a sera. Alle 19 arrivava Viviana da Chiusi. Decisero di fermarsi anche la notte a turno.

Io ritornavo a casa con una di loro verso le 20. Parlai con la dottoressa che dirigeva il reparto e mi confermò: “il ‘microcitoma’è un tumore al polmone raro, circa 5% dei casi, molto difficile da individuare preventivamente, che si sviluppa in modo violento e pervasivo; viene diagnosticato quasi sempre quando è troppo tardi e non è più operabile.”

Passarono i giorni, cambiavano gli altri degenti, che stavano 4-5 giorni ciascuno. Laura pareva stabile anche se mangiava poco. Con l’aiuto di Greta riusciva ancora ad alzarsi per andare in bagno da sola. Al pomeriggio guardavamo alla Tv la tappa del giro d’Italia. Avevo trovato un laureando in infermieristica che veniva a fare la notte. Quando arrivavamo con Greta, Laura ci raccontava le storie del suo infermiere, come lo chiamava lei.

Si sforzava di essere forte. Con me non ebbe mai cedimenti. Mi aveva chiesto di non avere visite, non voleva vedere nessuno all’infuori di noi.  Io tenevo un diario giornaliero che trasmettevo via email ai nostri amici più cari di Milano, che volevano sapere. Soltanto a Viviana disse che aveva paura, che non voleva morire.

Alla fine della seconda settimana la dirigente del reparto mi chiamò: “sua moglie dimostra una resistenza sorprendente. Con il vostro consenso possiamo fare un ciclo di chemioterapia sperimentale, per verificare la reazione”. Ne parlai con Laura. Vidi accendersi una luce nei suoi occhi. Il giorno dopo aveva anche lei un salamino applicato alla cintura, come gli altri degenti.

Purtroppo fu una breve illusione. La notte dopo alle 23 mi chiamarono Viviana e Greta. Laura aveva avuto una crisi fortissima. Paolo arrivava da Latina e passò prendermi.

Ci ritrovammo tutti alle 5 del mattino in una stanza dove avevano trasportato il suo letto. Era da sola, in uno stato di semi incoscienza. Si riprese il giorno dopo, ma non era più lei. Aveva perso ogni speranza. Non parlava quasi più, pur essendo del tutto cosciente.

Morì due giorni dopo, sabato 2 giugno alle ore 14. Erano trascorse tre settimane dal ricovero.

Non ci fu nessun funerale. Eravamo iscritti entrambi alla Società della Cremazione.

Martedì 5 giugno nella sala mostre del Comune di Sarteano organizzammo un incontro di saluto a Laura. Parteciparono oltre 100 persone. Arrivarono gli amici da Milano e dalla Valsassina. Arrivò anche mio fratello da Parigi. Il vice sindaco portò il saluto dell’amministrazione comunale.

Viviana, Greta ed io la salutammo per l’ultima volta. La musica era la sua, Bandiera rossa e Bella ciao.

Una settimana dopo Viviana, Paolo ed io portammo a casa l’urna con le sue ceneri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 


 


 


 

 

la mia Laura

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